Nucleare iraniano. L’Europa si taglia fuori dalla disputa

Innescando la riattivazione delle sanzioni Onu sull’Iran, Francia, Germania e Regno Unito (gli E3) sostengono di perseguire l’obiettivo di costringere la leadership a Teheran a rispettare i suoi obblighi di non proliferazione nucleare. Al contrario, hanno posto le premesse per una nuova crisi nucleare con l’Iran che potrebbe sfociare in una seconda guerra fra l’Iran stesso e Israele.

Le sanzioni sono state riadottate in base al cosiddetto “snapback”, un meccanismo incluso nel Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), l’accordo nucleare concluso nel 2015 dagli E3, Russia, Cina, USA e Iran. Dal punto di vista degli E3, è l’Iran ad avere forzato loro la mano rifiutando di accettare un’estensione dello snapback in cambio di tre condizioni: riaprire il suo programma nucleare alle ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), dare conto dell’uranio arricchito al 60% (un livello per cui non esiste un’applicazione civile) di cui si sono perse le tracce dopo i bombardamenti israelo-americani di giugno, e impegnarsi in un nuovo negoziato con gli Stati Uniti.

La decisione dell’Iran di violare i suoi obblighi di non proliferazione ha origine nel ritiro unilaterale degli Stati Uniti dal Jcpoa nel 2018 e nell’incapacità dell’Ue di proteggere il legittimo commercio con l’Iran dalle sanzioni extraterritoriali americane. Il fatto che, nei sette anni intercorsi fra il ritiro americano e il bombardamento israeliano, l’Iran non si sia affrettato a costruirsi una bomba (ancora a marzo di quest’anno l’intelligence statunitense insisteva che la leadership non avesse preso una decisione in questo senso) indica che una soluzione diplomatica fosse la sua opzione preferita. Dopotutto, l’Iran era ancora impegnato in un negoziato con gli Stati Uniti quando Israele lo ha aggredito.

L’Iran ha comunque cercato una soluzione intermedia, trovando un’intesa preliminare con l’Aiea e facendo pervenire agli Stati Uniti una bozza di accordo ad interim. In entrambi i casi, le soluzioni proposte dall’Iran erano insufficienti: l’accesso degli ispettori Onu troppo limitato e soggetto ad autorizzazioni rilasciate volta per volta, mentre l’accordo ad interim prevedeva scarsi obblighi da parte dell’Iran in cambio di ampie concessioni da parte degli Stati Uniti (garanzia che non ci sarebbe stato un altro attacco, ed eliminazione finale di tutte le sanzioni Onu). Ma la questione non è se queste misure fossero soddisfacenti in sé e per sé, ma se fossero sufficienti a rimandare la decisione sulle sanzioni Onu.

Per rispondere a questa domanda bisogna valutare le prospettive di quel negoziato contro i rischi che la riadozione delle sanzioni Onu reca con sé. Una nuova trattativa con gli Stati Uniti sarebbe stata molto difficile. L’Iran sostiene di avere diritto, in base al Trattato di Non-Proliferazione (Tnp) di cui è parte, a mantenere una capacità di arricchimento dell’uranio, di cui l’Amministrazione Trump vuole invece privarlo dato il suo potenziale di diversione militare. L’Iran si oppone anche alla richiesta americana di limitare il programma balistico, che resta la sua unica opzione di rappresaglia dopo che Israele ha decimato il suo principale alleato nella regione, Hezbollah in Libano.

Esistono comunque soluzioni intermedie per rompere l’impasse, da un consorzio regionale per l’arricchimento (già discusso durante il negoziato Usa-Iran interrotto dall’attacco israeliano) a una pausa pluriennale sull’arricchimento dell’uranio in Iran e una sua ripresa progressiva e sotto vigilanza internazionale. Se gli europei, in accordo con russi e cinesi, avessero trovato un accordo per l’estensione dello snapback, avrebbero mantenuto una leva di influenza su Teheran per spingerlo a un compromesso. Nonostante l’esito incerto, sarebbe stato più saggio strategicamente fare un ultimo tentativo data la posta in gioco.

I costi e i rischi della riattivazione delle sanzioni Onu sono infatti tutt’altro che trascurabili. Le sanzioni Onu introducono (fra le altre cose) una serie di limitazioni al commercio in armi e tecnologie e materiali nucleari e balistici con la Repubblica Islamica e autorizzano l’ispezione di navi sospettate di trasportare materiali proibiti. Più in generale, rimettono il programma nucleare iraniano sotto un’ombra di illegalità internazionale. Per l’Iran però il danno è di natura politica e simbolica più che economica, visto che le sanzioni extraterritoriali americane lo hanno messo sotto un embargo di fatto internazionale già dal 2018. Il governo iraniano sostiene che gli E3 abbiano perso l’autorità di attivare lo snapback dopo aver fallito nell’onorare i loro impegni sotto il Jcpoa – una posizione condivisa da Russia e Cina.

La risposta dell’Iran non si fermerà al piano diplomatico. Il parlamento ha già avviato la procedura di abbandono del Tnp, sebbene sia probabile che, per qualche tempo almeno, non si arriverà a tanto. L’Iran chiuderà però la porta agli ispettori dell’Aiea, portando quel che resta del suo programma nucleare sotto una fitta coltre di nebbia. Per quanto seri siano stati i danni inflitti dai bombardamenti, è plausibile che l’Iran possa ricostituire le strutture necessarie ad arricchire l’uranio in siti più piccoli e nascosti. Questa dispersione, inadatta a produrre materiale da impiegare nei reattori, potrebbe però essere sufficiente a produrre il materiale necessario per un piccolo arsenale. A questo l’Iran dovrebbe accompagnare la capacità di miniaturizzare il materiale fissile in una testata da montare sopra un missile balistico. Si tratterebbe di un procedimento complesso. Ma la leadership può aver maturato la convinzione di non avere altre opzioni, vista l’inaffidabilità americana, la debolezza europea e la belligeranza israeliana.

Data l’assenza di ispezioni Onu, Israele avrebbe gioco facile nel giustificare un nuovo intervento sulla base della sua intelligence. Un altro attacco potrebbe gettare la Repubblica Islamica nel caos o sfociare in una guerra prolungata. In entrambi i casi, il risultato sarebbe una profonda instabilità regionale e le tante incognite di insicurezza che ne conseguirebbero. In ognuno di questi scenari gli interessi strategici europei nella tenuta del regime di non-proliferazione e nella stabilità regionale sarebbero lesi.

Alla luce di questi rischi è lecito chiedersi perché gli E3 abbiano voluto accelerare il voto sullo snapback. L’ipotesi più plausibile è che abbiano ritenuto che offrire una sponda all’Iran avrebbe introdotto una fonte di disturbo in un rapporto transatlantico già traballante. A questo deve aggiungersi il calcolo che la guerra dei dodici giorni abbia messo l’Iran con le spalle al muro e che, pertanto, la leadership a Teheran cederà alle pressioni americane o quantomeno preferirà evitare azzardi.

Questo calcolo sottovaluta quanto la resilienza mostrata dalla Repubblica Islamica durante la guerra dei dodici giorni abbia rafforzato l’opposizione della leadership di Teheran a fare concessioni senza ottenere nulla in cambio, e che il governo di Israele ha un interesse a destabilizzare l’Iran anche in assenza di un pericolo imminente. Soprattutto la decisione degli E3 svela una forte riluttanza a mantenere un ruolo autonomo nella disputa sul nucleare iraniano. Giusto o sbagliato che sia il loro calcolo, gli europei saranno spettatori passivi di quanto accadrà in futuro, perché forzando il voto sullo snapback, l’ultima leva di influenza in loro possesso, hanno anche forzato se stessi fuori dalla gestione della disputa.

Coordinatore delle ricerche e responsabile del programma Attori globali dell’Istituto Affari Internazionali. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle relazioni transatlantiche, in particolare sulle politiche di Stati Uniti ed Europa nel vicinato europeo. Di recente ha pubblicato un libro sul ruolo dell’Europa nella crisi nucleare iraniana,“Europe and Iran’s Nuclear Crisis. Lead Groups and EU Foreign Policy-Making” (Palgrave Macmillan, 2018).

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