Leggendo i media europei, fra i vari messaggi di “euro-pessimismo” a cui siamo quotidianamente sottoposti, c’è quello del seguito deludente che sarebbe stato dato al rapporto di Mario Draghi sul rilancio della competitività dell’economia europea. Allarme ripreso in modo vibrante da Draghi stesso nel suo recente discorso di Rimini. Considerazioni analoghe sono fatte a proposito del rapporto di Enrico Letta sul mercato interno. Poi, più di recente, alcuni analisti ci hanno spiegato che il rapporto Draghi comporta 383 misure e che, a un anno dalla sua pubblicazione, “solo circa il 10%” ha trovato applicazione, mentre il 20% è stato attuato parzialmente. Queste cifre, di cui ignoro le basi di calcolo, hanno risvegliato in me antichi ricordi.
L’esperienza del Libro Bianco
Fra il 1986 e il 1994 ero responsabile, in seno alla Commissione Europea presieduta da Jacques Delors, del coordinamento complessivo dei lavori relativi all’attuazione del Libro Bianco sul completamento del mercato interno dell’allora CEE. Ero anche alla testa della Direzione Generale direttamente responsabile dell’armonizzazione delle norme industriali e della libera circolazione delle persone e delle professioni; quindi, di una parte sostanziale del programma. L’intero programma comportava circa 300 misure, poi cresciute un po’ in corso d’opera. Chi ha memoria, ricorderà che il Libro Bianco fu approvato con entusiasmo dal Consiglio Europeo di Milano del giugno 1985. Con quale risultato? Ebbene, alla fine del 1986 il tasso di attuazione del programma era quasi pari a zero. Il motore fu finalmente avviato grazie a un vigoroso sforzo congiunto della Commissione e della presidenza britannica del Consiglio, con l’approvazione di una dozzina di direttive che riguardavano argomenti terribilmente eccitanti come l’armonizzazione delle norme di sicurezza per i carrelli elevatori.
A partire da quel momento però, la macchina si avviò e non smise di funzionare. Dopo quattro anni, nel 1988, il Consiglio Europeo poté constatare che circa il 50% del programma aveva trovato attuazione e dichiarò con fierezza che il risultato era un trionfo dell’Europa. Al punto che Delors pensò che la situazione fosse a quel punto abbastanza matura per porre all’Europa l’obiettivo successivo: quello dell’euro. Sarei tentato di aggiungere che l’attuazione dell’ambizioso programma di riforme di Margaret Thatcher richiese circa un decennio, ma è un parallelo che ci porterebbe troppo lontano.
La complessità attuale e le sfide dell’attuazione
Torniamo a oggi. Se si tiene conto del fatto non solo che la situazione odierna e le sfide che l’Europa deve affrontare sono di gran lunga più difficili di quelle di allora, ma anche che il programma proposto da Draghi è obiettivamente più complesso di quello che conteneva il Libro Bianco di allora, cosa giustifica il dilagante pessimismo attuale? Perché un risultato del 10% oggi sarebbe un disastro se lo zero di allora fu soltanto uno stimolo ad accelerare? Non sarebbe forse il caso di fare della situazione un esame più sobrio, anche se non per questo più compiacente? La questione è centrale perché le problematiche sollevate dal rapporto Draghi non condizionano solo la solidità interna dell’economia e della società europee, ma anche la speranza dell’Europa di tornare a giocare un ruolo attivo sul piano internazionale.
Cominciamo con una domanda. Cosa vuol dire “attuare un programma complesso” in un contesto politico e istituzionale come quello dell’Europa di oggi? Domanda importante, soprattutto se si tiene conto del fatto che alcune proposte di Draghi, per esempio quelle in materia di difesa, si situano ai margini, se non al di fuori delle competenze delle istituzioni dell’UE. Per prima cosa, la fattibilità politica delle idee contenute in un programma come quello di Draghi può essere valutata solo quando ognuna è tradotta in disposizioni operative, comprese le implicazioni giuridiche e finanziarie. Per poter trovare attuazione, le proposte del rapporto devono quindi prendere la forma di misure specifiche su cui le istituzioni—la Commissione, il Consiglio e il PE—possono decidere nelle loro rispettive competenze.
Nel caso delle circa 300 proposte del Libro Bianco sul mercato interno, una parte minoritaria già esisteva, in alcuni casi da molto tempo; la maggioranza dovette però essere elaborata dalla Commissione. Nel caso di Draghi, praticamente tutte le idee devono essere tradotte in proposte concrete. Per fare un solo esempio, peraltro molto rilevante, cosa significa nei dettagli operativi l’attuazione dell’Unione dei Risparmi e degli Investimenti, cioè l’unificazione del mercato dei capitali?
A questa prima difficoltà se ne aggiunge una seconda. Come nel caso del Libro Bianco, anche a proposito del rapporto Draghi i governi e il PE possono dare un convinto accordo complessivo agli obiettivi del programma, ma questo non vuol dire che siano d’accordo anche su ciascuna delle misure individuali. È comunque certo che avranno diverse priorità. Qui interviene il problema della pesante e lenta macchina dell’UE; una complessità che possiamo stigmatizzare, ma con la quale per il momento dobbiamo vivere e che è certamente più complicata oggi, a 27, di quanto fosse allora, con 12 membri. Non dimentichiamo inoltre che molto spesso, prima che gli effetti siano percepiti dai cittadini e dalle imprese, le decisioni prese a Bruxelles devono essere tradotte in misure nazionali.
Sarebbe anche interessante disporre di un’analisi su quante delle misure necessarie possono essere oggi adottate a maggioranza qualificata, rispetto alla situazione che conoscemmo allora. È del resto certo che la sfida di oggi comporta arbitraggi politici—per esempio nel trade-off fra competitività e green deal, oppure sulla regolazione dell’economia digitale e dell’intelligenza artificiale—che sono più difficili di quelli di allora. Anche le condivisioni di sovranità si pongono oggi in modo più complesso.
La questione finanziaria
C’è una questione strategica che condiziona fortemente tutto il dibattito politico: il ruolo e l’importanza dei finanziamenti comuni. La trappola è evidente. Da un lato, Draghi lo spiega bene: il raggiungimento degli obiettivi richiede un salto qualitativo nel volume e nella qualità degli investimenti pubblici e privati. Una parte sostanziale della risposta sta nell’unificazione del mercato dei capitali, ma non si può negare l’importanza degli investimenti pubblici e, fra di essi, di uno sforzo comune. Dall’altro, però, porre con priorità l’accento su questo aspetto, senza che siano state definite le caratteristiche di tutto l’ecosistema, rischia di condurre la discussione in un vicolo cieco. Con il risultato di compromettere l’accordo anche sulle misure non finanziarie su cui l’accordo è meno controverso.
In questo caso, l’esperienza del Libro Bianco ci aiuta poco. O forse no. È infatti utile ricordare che Delors, dimenticando per un istante di essere socialista, all’inizio rifiutò di condizionare l’abolizione degli ostacoli agli scambi—che presumibilmente avvantaggiava le economie più forti—all’introduzione di una solidarietà finanziaria a favore di quelle più deboli. Attese invece che il programma avesse assunto una velocità di crociera e cominciasse a dare i primi frutti concreti, per proporre il suo “pacchetto” di solidarietà finanziaria che si tradusse in un aumento sostanziale dei fondi strutturali e del bilancio comune.
Superare il pessimismo con azioni concrete
Quanto precede mi porta a sospettare che anche il 10% di attuazione del rapporto Draghi, compreso nelle analisi già citate, è forse un po’ ottimista, ma allo stesso tempo a concludere che il pessimismo dilagante è privo di fondamento. La priorità, quindi, è superare il pessimismo. Cosa suggerire? Per prima cosa, la Commissione dovrebbe darsi un programma per tradurre rapidamente in proposte operative gli obiettivi del rapporto Draghi e, su questa base, stabilire un meccanismo affidabile e facile da comunicare di monitoraggio dei risultati.
Per l’attuazione del Libro Bianco si ricorse all’arma politica e psicologica delle scadenze; la più importante di tutte: quella del 1992. All’epoca funzionò come riferimento politico. Nella situazione attuale, l’abuso che se ne è fatto nel caso del green deal legittima i dubbi sulla loro efficacia politica. Inoltre, si pone la questione delle priorità. All’epoca del Libro Bianco decidemmo di rifiutarne la necessità per timore di cadere vittime di ricatti incrociati dei paesi membri; decidemmo invece di concentrare lo sforzo sulle proposte individuali, via via che emergevano. La situazione di oggi è più complessa. Ci sono temi come quelli del mercato dei capitali che sono sicuramente prioritari, nel senso che da essi dipendono molte altre cose.
Dall’esperienza di Delors è però possibile mutuare un altro principio guida: l’idea che, per superare le reticenze, bisogna per prima cosa superare il pessimismo e che, a questo fine, è utile focalizzarsi sulle cose possibili e facilmente percepibili. Penso, per esempio, alla questione dei costi dell’energia, al centro delle preoccupazioni dei cittadini e delle imprese. Vale la pena di ricordare che il fattore principale che determinò nella coscienza degli europei il “successo” del Libro Bianco non fu il numero delle decisioni prese, ma il fatto che, a un certo punto, le imprese europee si convinsero che il progetto era credibile e cominciarono ad anticiparne i risultati con le loro decisioni d’investimento. Per superare il pessimismo è bene tenere presente che il movimento genera movimento e che nulla come il successo genera successo. Nel mio ufficio tenevo con tenerezza la foto di un carrello elevatore.
Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore, fra l'altro, dei volumi 'L'Unione europea: una storia non ufficiale' e 'Stare in Europa: Sogno, incubo e realtà'