G7 e G20 discutono di supply chains sostenibili, nonostante tutto

Il ‘gruppo dei sette’ è alquanto fragile da quando alla Casa Bianca è tornato Donald Trump, che ha provocato una frattura vigorosa col resto dei paesi occidentali. La presidenza canadese ha perciò tentato di rinsaldare i rapporti concentrando i lavori su sicurezza ed economia, ma di altre materie di imprescindibile urgenza – come la lotta ai cambiamenti climatici – si discute poco e male. L’anno scorso il G7 aveva su questo tema preso numerosi impegni per la mitigazione e l’adattamento climatico. Un’attenzione particolare era stata rivolta al continente africano, prioritario per l’allora presidenza italiana. Adesso siamo in un’altra era, nella quale il governo del più potente dei sette paesi è ideologicamente contrario all’azione climatica e sta smantellando la legislazione ambientale federale supportando invece l’industria fossile.

Con Washington di nuovo fuori dagli accordi sul clima e con la minaccia di protezionismi e regimi tariffari estremi che intralciano la cooperazione globale, il multilateralismo climatico è più debole che mai e le premesse non sono certo delle migliori. Per fortuna, però, qualcosa si muove. Nonostante questo difficile contesto, si stanno facendo alcuni passi avanti sulle discussioni intorno alle catene del valore dei minerali critici, tema particolarmente caro alla parallela presidenza sudafricana del G20. Come noto, la riduzione delle emissioni comporta un cambiamento drastico nella produzione e nel consumo di energia con forme di energia più sostenibili, che richiedono un massiccio uso di questi materiali.

Le aspirazioni di industrializzazione verde del continente africano

Le relative catene di approvvigionamento sono al cuore della contesa geoeconomica tra superpotenze, soprattutto dopo la pandemia e la guerra in Ucraina. Il continente africano è proprio al centro di questo scontro: partner tradizionali come gli Stati Uniti, l’Europa e la Cina, così come attori del Golfo, la Turchia e l’India, cercano di accedere alle preziose risorse del territorio africano. Il continente detiene infatti circa il 30% delle riserve minerarie mondiali, il 40% dell’oro, circa il 90% del cromo e del platino e le maggiori riserve di cobalto, diamanti, platino e uranio. L’Africa rimane in gran parte un esportatore di materie prime primarie verso il resto del mondo, (Cina in primis), dove la maggior parte dei minerali critici viene ulteriormente trasformata in prodotti come le batterie per i veicoli elettrici. La rilevanza dell’Africa su questo tema ha portato molte superpotenze globali a stringere accordi per allentare la propria dipendenza dalla Cina.

Nel frattempo, molti governi africani vedono nella crescente domanda globale di materiali critici un punto di partenza per potenziare le proprie capacità di lavorazione a livello nazionale e regionale: l’aspettativa è che la lavorazione locale contribuisca a promuovere l’innovazione e la produttività, soddisfacendo così le aspirazioni di industrializzazione nel continente. Nonostante i numerosi tentativi compiuti a partire dal periodo della decolonizzazione, l’Africa è però la regione meno industrializzata a livello globale, pur avendo quasi il 20% della popolazione e della superficie mondiale. In linea con lo sforzo italiano nel 2024, anche i canadesi si sono mossi per rendere le catene del valore più sostenibili, tema che vede anche la presidenza sudafricana molto impegnata data la rilevanza del tema per tutto il continente.

Si procede, ma lentamente

Il Piano d’azione per i minerali critici del G7, sulla base dei cinque punti per la sicurezza dei minerali critici stabiliti durante la presidenza giapponese del G7 nel 2023 si concentrerà sulla diversificazione della produzione e dell’approvvigionamento responsabile di minerali critici, sull’incoraggiamento degli investimenti in progetti di minerali critici e sulla creazione di valore locale, nonché sulla promozione dell’innovazione. Il G7 canadese si è impegnato ad affrontare gli ostacoli agli investimenti e a sostenere le riforme politiche e normative che migliorino il clima degli investimenti anche attraverso il G20 Compact con l’Africa.

Le barriere (economiche, sociali, ambientali e politiche) però non mancano. Tra gli ostacoli vi sono le limitate forniture di energia affidabile e a basso costo per convertire il minerale in materiali utilizzabili; l’inadeguatezza delle infrastrutture di trasporto; l’accesso limitato a finanziamenti a basso costo a causa dell’elevato rischio di investimento associato a molte nazioni africane. Le preoccupazioni su come garantire trasparenti e adeguati standard ambientali, sociali e di governance (ESG) complicano poi ulteriormente la situazione degli investimenti sia per l’estrazione che per la lavorazione di questi materiali.

I vari attori ai (già deboli) tavoli multilaterali G7 e G20 hanno poi orientamenti molto diversi rispetto a questo tema. I differenti approcci sono evidenti: la Cina ha per esempio negli anni principalmente stretto accordi per le materie prime, gli Stati Uniti cercano di firmare accordi minerari in cambio di sicurezza, come nel caso della Repubblica Democratica del Congo. Al contrario, l’Ue cerca di promuovere progetti comuni e condivisi con i suoi partner, soprattutto nelle economie in via di sviluppo. Quest’ultimo pare essere l’approccio più in linea con quanto delineato dal continente africano stesso, almeno su carta. L’attuale debolezza e frammentazione europea, però, non aiuta a far valere la voce di Bruxelles a livello globale. Del tema naturalmente si continuerà a lavorare dentro i gruppi di lavoro G7 e G20. I think tank al lavoro per supportare la presidenza del G20 hanno definito alcuni principi su cui basare la gestione dei minerali: vediamo se nel summit di fine novembre qualche passo in più sarà possibile.

Responsabile del programma Energia, clima e risorse all’Istituto Affari Internazionali. In precedenza ha lavorato presso il Parlamento europeo, nella Task Force della Presidenza italiana del G7 e presso UN Environment.

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