È difficile sottostimare la rilevanza dell’attacco di Israele all’Iran della notte fra 12 e 13 giugno per la sicurezza regionale e internazionale.
L’esito dell’attacco
Israele ha ucciso il capo delle forze armate Mohammad Baqeri e soprattutto Hossein Salami, il comandante delle Guardie della Rivoluzione Islamica, il corpo paramilitare che controlla la politica di sicurezza regionale dell’Iran. Ha anche ucciso due fra i maggiori scienziati nucleari iraniani e Ali Shamkhani, il principale consigliere diplomatico della guida suprema Ali Khamenei. Nel frattempo ha bombardato un centinaio di obiettivi, da centri nucleari alle difese antiaeree, centri di comando e controllo e fabbriche di produzione di armi.
I danni sono ancora da stimare, ma non c’è dubbio che l’operazione sia uno sfolgorante successo militare di Israele, che ha inferto un colpo durissimo al regime clericale contribuendo a paralizzarne la risposta immediata e a indebolirne la solidità. Tuttavia, l’attacco al programma nucleare è stato parziale e certamente non definitivo. Se Israele vuole distruggerlo o seriamente danneggiarlo, dovrà continuare una serie di massicci bombardamenti per giorni se non per settimane.
Il calcolo di Israele
Israele ha presentato l’attacco come un’azione preventiva contro la minaccia esistenziale rappresentata dal programma nucleare iraniano. La realtà è ben diversa.
L’Iran non ha un arsenale atomico. Dispone invece di un ampio programma nucleare civile, che però è fonte di legittima preoccupazione a causa del potenziale di diversione militare. Tuttavia, ancora quest’anno l’intelligence americana ha ripetuto la sua valutazione che la leadership iraniana avesse posto fine a un embrionico programma militare nel 2003 e che non abbia preso la decisione di dotarsi di un arsenale atomico.
In realtà, più che come base per un deterrente l’Iran ha usato il programma nucleare come leva negoziale nei rapporti coi suoi nemici, Stati Uniti in testa. Non è un caso che l’attacco sia giunto tre giorni prima di un sesto round negoziale fra Iran e Stati Uniti, in programma a Muscat, in Oman, il 15 giugno.
L’obiettivo del premier israeliano Benjamin Netanyahu è quello di uccidere ogni chance di diplomazia nucleare, come dimostra l’assassinio di Shamkhani, il principale sostenitore del negoziato. L’intenzione è privare gli iraniani di ogni incentivo a sedersi al tavolo. Non ci sono ancora conferme, ma sembra che il round di Muscat sia annullato.
Trump nell’angolo
L’Amministrazione americana ha dichiarato che quella israeliana è un’azione unilaterale. Il presidente Donald Trump, che non più di qualche ora fa era tornato a esprimersi con cauto ottimismo sulle prospettive di un accordo (in una delle sue numerose oscillazioni a riguardo), ha esortato gli iraniani a sedersi al tavolo prima che sia troppo tardi.
La sua speranza è che l’attacco israeliano spaventi al punto la Repubblica islamica da renderla malleabile alla richiesta massimalista di smantellare il programma di arricchimento dell’uranio, la parte più complicata, costosa e sensibile di un programma nucleare che può essere dirottata ad usi militari (dipende dal livello di arricchimento).
Trump ritiene che gli americani possano credibilmente sostenere di essere estranei all’attacco, nonostante ne fossero informati e non abbiano fatto nulla per bloccarlo prima ancora che si tenesse il prossimo round negoziale.
È difficile individuare un senso strategico in questo approccio. Se Trump avesse imposto a Israele di aspettare l’eventuale fallimento del negoziato, avrebbe dato credito alla sua pretesa di essere un uomo di pace ma anche rafforzato la sua reputazione di essere pronto alla forza per portare gli avversari a più miti consigli. Soprattutto, avrebbe dato l’impressione di essere lui in controllo.
Invece, ora si trova a dover fare i conti con un regime umiliato e che ha perso quel poco di fiducia che aveva ancora in Washington. Concedendo a Israele di attaccare prima del fallimento del negoziato, Trump ha non solo dato una volta ancora un’immagine di un’America debole rispetto a Israele, ma anche ridotto la capacità d’azione degli Stati Uniti, che ora dipendono più di prima da quanto farà l’Iran.
La risposta dell’Iran
La risposta dell’Iran, già annunciata e in piccola parte messa in atto, ha tre possibili dimensioni: una militare, una nucleare e una regionale.
La risposta militare passa in primo luogo per una rappresaglia diretta contro Israele con un attacco con droni e missili. Un’ipotesi è che l’Iran calibri l’attacco in modo da presentarlo come proporzionato a quello subito ed evitare così di dare giustificazione agli Stati Uniti per unirsi ai bombardamenti israeliani. Non si può però escludere che la leadership iraniana voglia portare un attacco più massiccio, ammesso che ne abbia le capacità (e le capacità militari iraniane si sono rivelate piuttosto inefficienti, vista l’estrema vulnerabilità dei vertici militari). È chiaro che in uno scenario di escalation militare, maggiore è la violenza degli scontri e più difficile sarà per gli Stati Uniti restare fuori dal conflitto.
L’Iran potrebbe anche decidere di colpire il personale americano nella regione, puntando sull’avversione di Trump a impegnare gli Stati Uniti in un altro conflitto in Medio Oriente. Ciò detto, per un presidente che vuole apparire duro e risoluto come Trump sarebbe estremamente difficile resistere alla pressione di punire eventuali attacchi iraniani. Anche in questo caso, quindi, l’eventuale coinvolgimento militare degli Stati Uniti non è interamente nelle mani di Washington.
Venendo alla dimensione nucleare, non desterebbe sorpresa se l’Iran nei prossimi giorni dovesse rinunciare ai negoziati con gli americani, negare l’accesso agli ispettori Onu e annunciare il prossimo ritiro dal Trattato di Non-Proliferazione, la base legale sulla quale il suo programma nucleare è diventato oggetto di disputa internazionale. Il programma nucleare iraniano entrerebbe così in una più fitta zona d’ombra nella quale la leadership avrebbe maggiori margini per prendere la decisione se costruirsi o meno la bomba.
In questa situazione di incertezza, le probabilità di un attacco da parte degli Stati Uniti, che da anni hanno fatto dell’atomica iraniana una linea rossa invalicabile, aumenterebbero. Se ciò sia sufficiente a bloccare i progressi nucleari iraniani è però incerto. L’assunto generale è che alla lunga un paese delle dimensioni, capacità industriali e conoscenze nucleari come l’Iran non possa essere fermato nella corsa nucleare.
L’ultima dimensione della risposta è quella regionale. Negli anni passati Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita hanno cercato una distensione con l’Iran dopo aver sofferto sabotaggi delle rotte commerciali nel Golfo di Oman e un attacco diretto contro le centrali petrolifere saudite. Non a caso Riyadh si è affrettata a denunciare l’aggressione israeliana.
Credibilmente l’Iran non intende compromettere le ritrovate buone relazioni coi vicini arabi. Tuttavia, se si dovesse trovare nel prossimo futuro in una situazione disperata, la leadership iraniana potrebbe concludere che la distensione con i paesi arabi non ha prodotto benefici di sicurezza e che pertanto non resta altra opzione che alzare i costi per tutti. Punterebbe a destabilizzare la regione attaccando il traffico commerciale nelle acque del Golfo e colpendo direttamente o attraverso gli Houthi le centrali petrolifere saudite o, nella peggiore delle ipotesi, Dubai. Il coinvolgimento americano non potrebbe che crescere di conseguenza.
Vittoria israeliana, sconfitta regionale?
Con l’attacco di stanotte, Israele ha umiliato un nemico e vincolato gli Stati Uniti. La scommessa è che, intimidito o sconfitto, il regime iraniano sia soggiogato. La posta in palio è un sistema regionale fondato sulla supremazia di Israele garantita dal supporto americano.
È una scommessa ad alto rischio, anche perché fino ad ora l’indiscutibile supremazia israeliana non ha prodotto soluzioni politiche di lungo periodo, ma al contrario ha seminato incertezza e insicurezza. È anche una scommessa dagli alti costi, perché Israele ha infranto il più elementare principio di diritto internazionale aggredendo un altro stato senza che vi fosse una minaccia imminente, e ha dato un potenziale colpo fatale al regime di non-proliferazione se davvero l’Iran dovesse decidersi per un deterrente nucleare.
Avendo finalmente ottenuto quella guerra contro l’Iran che ha perorato per trent’anni, Netanyahu è determinato a portarla a compimento. Ma lo sfondo del suo trionfo potrebbero essere le macerie di un ordine regionale a pezzi.
Coordinatore delle ricerche e responsabile del programma Attori globali dell’Istituto Affari Internazionali. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle relazioni transatlantiche, in particolare sulle politiche di Stati Uniti ed Europa nel vicinato europeo. Di recente ha pubblicato un libro sul ruolo dell’Europa nella crisi nucleare iraniana,“Europe and Iran’s Nuclear Crisis. Lead Groups and EU Foreign Policy-Making” (Palgrave Macmillan, 2018).