Alla fine l’accordo è arrivato. Dopo mesi di negoziati e dichiarazioni altisonanti, Usa e Ue hanno definito un’intesa che introduce dazi del 15% su molte esportazioni europee verso gli Usa, effettivi dal 1° agosto. Una riduzione rispetto alla minaccia iniziale del 30%, certo, ma a un prezzo altissimo per l’Europa.
Per ottenere questo compromesso, Bruxelles ha infatti promesso di acqustare 750 miliardi di dollari in energia dagli Usa entro i prossimi tre anni e di investire altri 600 miliardi direttamente nell’economia statunitense. Trump ha ottenuto, a quanto sembra, anche la cancellazione di una possibile digital tax europea sulle multinazionali americane, il mantenimento di dazi al 50% su acciaio e alluminio, e la garanzia di ingenti acquisti militari dalle imprese americane, con buona pace delle aspirazioni europee di autonomia strategica e militare.
Sebbene i veri effetti economici di quest’accordo emergeranno nei prossimi mesi, quando aziende e consumatori inizieranno concretamente a percepirne l’impatto, è già evidente una profonda spaccatura tra la soddisfazione ostentata dai leader europei e le aspre critiche di molti analisti, che descrivono l’intesa come una delle più grandi umiliazioni subite dall’Europa negli ultimi decenni.
I numeri del commercio transatlantico e l’esposizione europea
Ue e Usa vantano la relazione economica bilaterale più rilevante al mondo, con un interscambio annuale di circa 1.600 miliardi di euro. Se da un lato l’Ue, come ha più volte lamentato il Presidente Trump, registra un surplus commerciale nei beni (+156 miliardi di euro nel 2023, -2% rispetto al 2021), continua tuttavia a registrare, come sembra aver ignorato anche la Presidente von der Leyen nelle dichiarazioni recenti, un disavanzo nei servizi (–109 miliardi di euro nel 2023, +7,9% rispetto al 2021).
I Paesi Ue con il valore assoluto più elevato di esportazioni di beni verso gli Usa nel 2023 sono Germania, Italia, Irlanda, Francia, Paesi Bassi e Belgio. Tuttavia, non sono solo i grandi esportatori a essere esposti: diversi Paesi, tra cui Irlanda, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca e Lussemburgo, mostrano un’esposizione percentuale superiore al 20% del proprio export totale verso gli Usa, risultando così particolarmente vulnerabili all’imposizione di dazi. Quanto ai servizi, i dati confermano una fortissima dipendenza transatlantica. Gli Usa rappresentano il primo partner commerciale per i servizi in quasi metà dei Paesi Ue e rientrano sistematicamente tra i primi tre partner per quasi tutti gli Stati membri. In sintesi, sia nel commercio di beni che in quello di servizi, l’Ue si conferma fortemente esposta agli Usa, con implicazioni significative in caso di inasprimento delle politiche protezionistiche o rotture negoziali.
Un storia di conflitti commerciali a difesa degli interessi commerciali
Nonostante questa forte interdipendenza e la stretta alleanza militare, l’Ue e gli Usa sono sempre stati nel tempo strenui difensori dei reciproci interessi commerciali. Non hanno mai firmato un accordo di libero scambio e i negoziati per il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), avviati nel 2013, si sono arenati nel 2016 e sono stati ufficialmente chiusi nel 2019 a causa di disaccordi su lavoro, tutela dei consumatori, concorrenza e ambiente.
Anche in passato, attacco e difesa sono stati reciproci. Nel 1963 la “Chicken War” causò forti tensioni sui due lati dell’Atlantico, negli anni ’90 vi furono contenziosi sulle banane, nei primi anni 2000 sul divieto Ue alla carne bovina trattata con ormoni. Dal 2004 al 2021, entrambe le parti hanno imposto dazi reciproci a seguito della disputa sui sussidi ad Airbus e Boeing.
Alla luce di questa storia di reciproca determinazione nel difendere i propri interessi, risulta difficile comprendere perché Bruxelles abbia affrontato i negoziati con Trump non come la potenza economica e politica globale che è, ma piuttosto come un partner subordinato che teme la reazione dell’alleato americano.
Le armi commerciali che l’Europa aveva a disposizione
L’Ue non era impotente. Anzi, aveva moltissimi strumenti. Avrebbe potuto colpire le esportazioni agricole simboliche per la base elettorale di Trump – soia, distillati, frutta secca – tutte provenienti in gran parte da Stati repubblicani. Oppure introdurre un dazio europeo sull’uso dei marchi americani, colpendo giganti come Apple, McDonald’s o Starbucks, senza intaccare direttamente i consumatori. In ultima istanza, se pericolosamente minacciata, avrebbe potuto persino sospendere temporaneamente le protezioni brevettuali su aziende statunitensi, come accaduto nella disputa Airbus-Boeing.
Aveva inoltre a disposizione il nuovo Anti-Coercion Instrument, approvato nel 2023, che consente all’Unione Europea di adottare misure di ritorsione mirate contro atti coercitivi da parte di Paesi terzi. Tra queste, figurano la sospensione dell’accesso agli appalti pubblici per aziende straniere, restrizioni su investimenti e scambi, e la revoca temporanea della tutela della proprietà intellettuale.
La Cina, in circostanze analoghe, ha fatto proprio questo: ha usato il proprio peso economico e ha minacciato pesanti ritorsioni. L’Ue ha invece ceduto, nel timore di una guerra commerciale totale. Ma il risultato è un precedente pericoloso. L’Ue non era il Vietnam che non poteva reagire, né tantomeno il Giappone il cui volume di affari era enormemente più limitato.
Una nuova dipendenza: le lezioni non apprese
L’Ue aveva la scala economica per mostrare “l’art of the deal” e chiedere quanto le spettava. Negli Usa oltre 1,2 milioni di posti di lavoro dipendono direttamente dalle esportazioni europee di beni, e quasi un milione dai servizi europei. Ha preferito invece un approccio difensivo, forse spaventata dal vedersi aggredita economicamente dagli Usa e militarmente dalla Russia senza lo scudo americano. Eppure, l’accordo raggiunto racconta qualcosa di più profondo: un’Europa che non sfrutta la sua forza, che rincorre l’America invece di trattare da pari a pari.
La lezione del gas russo doveva essere chiara: ogni dipendenza è un rischio. Sembra invece che l’Europa abbia detto no alla Russia ma sì a una nuova dipendenza. Sembra che l’Europa non riesca più a esistere come entità senza dipendere da qualcuno.
Ursula von der Leyen potrà sostenere che l’accordo ha evitato il peggio. Forse è vero, ma solo se non ci fossimo chiamati Europa e non fossimo la terza economia mondiale. Essere amici di tutti è fondamentale, essere subordinati agli interessi altrui è, oggi più che mai, estremamente rischioso. Bruxelles rifletta, perché la storia non concede molte occasioni per rimediare.
Carlo Giannone è Co-Chair of the European Conference at Harvard e Master’s Student of Public Policy at Harvard Kennedy School
