Sciiti verso la vittoria nelle urne irachene

Domenica 10 ottobre, gli iracheni saranno chiamati a votare per la ripartizione dei seggi nel Consiglio dei rappresentanti (la Camera bassa del Parlamento) per la quinta volta dalla caduta del regime di Saddam Hussein, avvenuta nel 2003. A contendersi i 329 seggi ci saranno più di 3500 candidati (tra cui figurano 950 donne); di questi, poco più di mille si presentano come iscritti a uno dei 267 partiti concorrenti, divisi in 44 coalizioni.

Molti sono i cambiamenti rispetto alle elezioni del 2018: le coalizioni di tre anni fa si sono sciolte, mentre la legge elettorale è stata modificata.

Le nuove regole del gioco
Con l’approvazione della Legge n° 9 (2020) da parte del Consiglio dei rappresentanti, il Paese è passato da un sistema proporzionale al voto singolo non trasferibile. Il nuovo testo prevede inoltre l’assegnazione di 9 seggi alle minoranze (cristiani e yazidi) e il 25% dei restanti 320 a candidate donne, così come la riorganizzazione delle precedenti diciotto province in 83 collegi uninominali (ognuno formato da diecimila elettori) – una scelta che prova a contrastare il precedente dominio dei partiti di maggioranza in favore dei candidati indipendenti.

Nonostante il nuovo sistema elettorale, elaborato sotto il governo ad interim di Mustafa al Kadhimi, tenti di soddisfare alcune delle richieste avanzate dai cittadini in protesta a partire dall’ottobre 2019, ci si aspetta un’affluenza alle urne decisamente bassa. Le previsioni, caratterizzate da uno scetticismo generale, vanno al di sotto del 44,5% (su 25 milioni di aventi diritto) del 2018. Di fatto, fin dall’annuncio delle elezioni – inizialmente previste a giugno 2021 poi posticipate a ottobre per permettere l’organizzazione di votazioni trasparenti e in sicurezza – diversi attivisti e leader politici e religiosi hanno invitato al boicottaggio.

Le proteste del 2019 e la disillusione generale
Le elezioni del 10 ottobre saranno le prime da quando le proteste del 2019 portarono l’ex primo ministro Adil Abdul Mahdi a dimettersi, vista l’incapacità di dare una svolta al Paese, da anni attraversato da una profonda crisi sociale, economica e politica.

I manifestanti scesi in piazza per la prima volta il 1° ottobre 2019 chiedendo le dimissioni del primo ministro hanno poi protestato anche contro le ingerenze statunitensi e iraniane ma soprattutto contro la leadership irachena. Secondo le accuse dei manifestanti, infatti, quello nazionale sarebbe un sistema politico settario e clientelare, reo di esacerbare le divisioni tra etnie e confessioni (soprattutto tra la maggioranza sciita del Paese e la minoranza sunnita), contribuendo alla dilagante, endemica corruzione.

La dura reazione da parte delle forze di sicurezza ha causato più di mille morti e 4.600 arresti, secondo i dati dell’Iraqi War Crimes Documentation Centre. Le proteste, che sono proseguite a fasi alterne fino al luglio 2021, hanno spinto il Primo ministro Mahdi a dimettersi nel novembre 2019, venendo sostituito da Mustafa al Kadhimi. Sotto la guida dell’ex capo dell’intelligence irachena, il Consiglio dei rappresentanti dell’Iraq ha votato e approvato la nuova legge elettorale del 2020 e l’organizzazione di elezioni anticipate. Tuttavia, nonostante alcuni cambiamenti, le forze in gioco rimangono pressoché le stesse da diciassette anni, preannunciando ben pochi cambiamenti.

Sunniti e curdi indeboliti
Nonostante si siano verificate delle scissioni all’interno della coalizione sciita, il blocco Saeroon rimane il favorito per la ripartizione dei seggi. Il partito principale, il Movimento Saadrista (54 seggi alle elezioni del 2018), è guidato da Moqtada al-Sadr.

L’ex leader sciita della resistenza armata contro gli Stati Uniti ha recentemente espresso critiche dure nei confronti dell’Iran, provocando tensioni all’interno del panorama politico sciita. Al-Sadr, infatti, si presenta come un politico populista e nazionalista, facendo della lotta alla corruzione e alle ingerenze straniere i punti focali della propria campagna. Inizialmente propenso al boicottaggio delle elezioni (decisione poi ritirata quest’estate), al-Sadr e la sua coalizione potrebbero arrivare a guadagnare cento o più seggi, diventando la forza principale del Parlamento iracheno. Il vasto supporto deriva non solo dal culto della personalità di uno dei più influenti teologi sciiti della regione, ma anche e soprattutto dalla sua opposizione ai gruppi politici e militari supportati da Teheran, considerati destabilizzanti da parte della popolazione, e riuniti in una coalizione (Fatah) concorrente il 10 ottobre.

Ci si aspetta che l’Alleanza Fatah esca come seconda fazione politica più forte del Paese. Guidata da Hadi al-Amiri (il cui partito ottenne 48 seggi nel 2018), la coalizione riunisce movimenti politici espressione delle milizie sciite sostenute dall’Iran, che godono di buona fama per il ruolo giocato nella guerra contro il sedicente Stato Islamico dal 2014 in poi. Nella coalizione sono presenti anche Asaib Ahl al-Haq, formazione politico-militare inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte degli Stati Uniti, e l’ala politica di al-Badr, fazione sciita filo-iraniana fin dal prima guerra del Golfo.

Ultimi ma non ultimi (forse)
Le altre fazioni sciite sono sicuramente svantaggiate rispetto alle due coalizioni principali ma potrebbero risultare fondamentali nel formare il nuovo governo iracheno. Il teologo sciita Ammar al-Hakim (del Movimento Hikma, 19 seggi nel 2018) e l’ex Primo ministro Haider al-Abadi di Alleanza della Vittoria (42 seggi nel 2018) hanno unito le forze presentandosi nella coalizione Alleanza delle forze nazionali. La popolarità di al-Abadi, primo ministro durante la sconfitta dell’Isis, potrebbe portare voti alla coalizione, comunque lontana da Saeroon. Infine, Nuri al-Maliki, anch’esso sciita, guiderà ancora una volta la coalizione Stato della Legge (25 seggi nel 2018), il cui nucleo centrale è rappresentato dal partito Da’wa, storicamente il più importante anche se ormai relegato a un ruolo minoritario a causa degli scandali di corruzione che ne hanno corroso fama e consensi.

Le forze politiche sunnite, invece, sono divise principalmente tra due coalizioni. Guidata dall’attuale speaker della Camera Mohammed al-Haburi, e concorrente con 150 candidati, la coalizione Taqaddum (progresso) riunisce partiti sunniti con basi etniche diverse (nella lista figura anche il Partito turkmeno iracheno) e rimane la favorita nelle aree a maggioranza sunnita, come Mosul e Anbar. Diretto rivale di Taqaddum è l’altra coalizione sunnita: Alleanza Azm (determinazione). Guidata dall’imprenditore Khamis al-Khanjar, la coalizione presenta 124 candidati, tutti arabi sunniti.

A queste elezioni, si presenta indebolito anche il fronte dei curdi, solitamente riuniti in una coalizione si presenteranno il 10 separati. La coalizione curda, di cui fanno parte il Movimento Gorran (cambiamento) e l’Unione patriottica del Kurdistan (Pku), presenterà 44 candidati, capeggiati dal leader del Pku Qubad Talabani. Fuori dalla coalizione è rimasto invece il Partito democratico curdo (Nkp) che, espressione diretta del potere politico della famiglia Barzani, cerca di riconquistare i 25 seggi attualmente occupati. Storicamente il partito curdo più forte, si presenta con 51 candidati.

Giovani in rivolta
La lista di partiti e coalizioni concorrenti presenta diversi movimenti nati sull’onda dell’entusiasmo dell’ottobre 2019 ma che secondo gli analisti ricopriranno un ruolo marginale durante le elezioni. È il caso del movimento Imtidad di Alaa al-Rikabi e il Movimento 25 ottobre, fondato da Talla al-Hariri. Entrambi i movimenti presentano programmi progressisti e laici e godono di ampio supporto tra i giovani. Difficile prevedere in che modo questo supporto verrà concretizzato.

Molti degli attivisti leader durante le proteste hanno infatti invitato al boicottaggio del voto, visto che ci si aspetta la vittoria dei soliti noti nel consueto clima di tensioni e intimidazioni. Dello stesso avviso è anche Louis Raphael I Sako, patriarca della Chiesa caldea, che invita al boicottaggio i fedeli in quanto, a suo avviso, i cristiani non sono sufficientemente rappresentati neanche con la nuova legge elettorale. A preoccupare il patriarca, così come gli analisti e gli osservatori delle Nazioni Unite, c’è la possibilità che le milizie locali, sia sciite sia sunnite, esercitino la violenza per allontanare le persone dai seggi, o per colpire direttamente candidati come è già successo in passato e durante la campagna elettorale. Tensione alta anche nel Nord del Paese e nelle principali città dove c’è sempre il rischio di attentati a seggi e edifici governativi.

A cura di Enrico La Forgia, caporedattore Mena de Lo Spiegone

Foto di copertina EPA/GAILAN HAJI

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