Repressione e violenza a Sud: l’Europa non può non farsi sentire

Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, la politica estera europea non è rimasta a guardare.

Nell’ultimo anno l’Unione europea ha approvato sanzioni senza precedenti, ha rilanciato l’allargamento, ha offerto protezione ai rifugiati, ha approvato miliardi di aiuti finanziari e militari, e – in relazione con questi ultimi – ha mobilitato lo Strumento europeo per la pace come piattaforma in divenire di procurement per la difesa Ue. Gli sforzi diplomatici dell’Unione riguardo alla guerra hanno preso la forma anche di un rafforzamento del legami transatlantici, di una pressione diplomatica sulla Cina e di una proiezione verso il “Sud Globale”.

In questo senso, sarebbe ingiusto criticare l’Unione per una sua inazione. Comprensibilmente, l’azione dell’Ue si è concentrata sulla guerra più devastante sul continente dalla Seconda guerra mondiale. Ma questo non significa che gli altri angoli del vicinato europeo siano stabili o non meritevoli di attenzione – un mix potenzialmente esplosivo sta covando a sud.

Vecchie e nuovi conflitti in Medio Oriente e Nord Africa

Da quando esiste l’Ue, il Nord Africa e il Medio Oriente non sono mai stati realmente sulla buona strada per raggiungere la pace, la prosperità e la democrazia. La guerra, l’autoritarismo, le violazioni dei diritti umani, il terrorismo e l’ingiustizia socioeconomica sono la norma da decenni. E adesso ci attendono tempi ancora più turbolenti – l’Europa dovrebbe prestare molta più attenzione.

Dopo la Primavera araba, l’autoritarismo e la repressione si sono nuovamente consolidati; le guerre civili – anche se in declino – hanno lasciato il posto non alla riconciliazione ma alla violenza strutturale, mentre il rischio di proliferazione nucleare, considerando lo stallo dell’accordo nucleare con l’Iran, non è mai stato così alto.

Ad eccezione del cessate il fuoco in Yemen e dell’accordo saudita-iraniano, la situazione nella regione è andata di male in peggio.

In Sudan, la speranza di una transizione democratica dopo la fine del regime di Bashir nel 2019 si è infranta con il colpo di stato militare due anni dopo. Largamente ignorato dalla comunità internazionale, il Sudan è ora esploso in una spirale di violenza tra forze armate e paramilitari, sostenute da potenze regionali come Egitto e Emirati Arabi Uniti.

In Siria, il regime di Bashar al-Assad ha stretto la sua morsa, usando a tal fine, in maniera nauseante, la tragedia del terremoto. In Libia, la missione d’inchiesta sostenuta dalle Nazioni Unite ha riportato un netto deterioramento dei diritti umani, registrando crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi dalle milizie armate, dalle forze di sicurezza dello Stato e dalla Guardia costiera libica – sostenuta in modo imbarazzante dall’Ue.

Contemporaneamente, in tutto il Nord Africa e nel Sahel, il gruppo paramilitare russo Wagner rappresenta una minaccia crescente.

Tunisia e Israele: democrazie in pericolo

Inoltre, anche i due soli casi di democrazie – per quanto imperfette – si stanno entrambi unendo al nutrito gruppo degli stati autoritari.

La Tunisia, l’ultima sopravvissuta della Primavera araba, è tornata all’autoritarismo nel 2021, quando il presidente Kais Saied ha sospeso e poi sciolto il parlamento. Da allora, invece di impegnarsi a risollevare il suo Paese dalla terribile situazione economica in cui versava, Saied ha profuso tutte le sue energie per concentrare il potere nelle proprie mani, reprimendo nel frattempo il dissenso politico, la società civile, l’indipendenza giudiziaria e la libertà dei media.

E mentre la popolarità di Saied precipita, la disaffezione pubblica cresce, la crescita economica e l’occupazione languono, c’è carenza di cibo, l’inflazione è in aumento, e il presidente si rifiuta di firmare un prestito di salvataggio di $1,9 miliardi dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Tunisia è ormai sull’orlo del collasso politico ed economico.

Israele, nel frattempo, a lungo difesa come “l’unica democrazia nel Medio Oriente”, rischia adesso di “normalizzare” la sua presenza nella regione non solo stabilendo legami diplomatici con il mondo arabo, ma diventando più simile ad esso.

Se la separazione dei poteri e i check-and-balances in Israele fossero compromessi in conseguenza delle riforme giudiziarie proposte dal governo, il Paese semplicemente cesserebbe di essere una democrazia liberale. E mentre le incessanti proteste che hanno toccato tutti gli angoli della società ebraica israeliana ne segnalano la vitalità, non garantiscono tuttavia che le riforme saranno accantonate – e hanno sostanzialmente ignorato il crescente conflitto con i palestinesi.

In effetti, il conflitto israelo-palestinese e la minaccia alla democrazia israeliana sono due facce della stessa medaglia.

La proliferazione della violenza dei coloni, le crescenti minacce di trasferimenti di popolazione, le mosse sempre più rapide per revocare la cittadinanza e i diritti di residenza dei palestinesi, gli appelli del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich per cancellare la città di Huwara, la creazione di una guardia nazionale sotto il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir e il recente raid della polizia israeliana nella moschea di al-Aqsa, che ha innescato un ciclo di violenza in Cisgiordania e a Gaza, nonché in Libano, sono tutti collegati alle riforme giudiziarie in discussione.

La Corte suprema israeliana non ha mai fermato, né tanto meno invertito, l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, ma l’ha comunque rallentata in diverse occasioni. E – assieme alle vicissitudini giudiziarie del primo ministro Benjamin Netanyahu e ai doveri militari della comunità ultraortodossa haredi – è proprio questo il motivo per cui il governo vuole limitare il potere della corte. In altre parole, il tentativo di accelerare l’annessione de facto del territorio occupato è ciò che sta dietro la rinnovata escalation del conflitto.

Una vecchia divisione europea

Tutti questi sviluppi sono osservati dai leader europei, alcuni dei quali – come l’Alto rappresentante dell’UE Josep Borrell e il Commissario Paolo Gentiloni – stanno lanciando concitati campanelli d’allarme, in particolare per quanto riguarda la Tunisia.

Tuttavia, l’efficacia dell’azione europea è inibita da una vecchia divisione che si ripresenta in nuove forme, poiché i Paesi dell’Europa orientale e settentrionale si concentrano esclusivamente sull’Ucraina e sulle sue ramificazioni, mentre i Paesi meridionali guardano a sud – ma nel modo sbagliato.

L’Italia, per esempio, cerca di spostare i riflettori europei sulla Tunisia, ma lo fa sostenendo che Bruxelles e il FMI dovrebbero mettere da parte i requisiti di riforma e incanalare fondi verso il paese a prescindere.

Il motivo è chiaro: accanto al ruolo sempre più strategico svolto dal gasdotto Trans-Mediterraneo che trasporta gas algerino in Italia attraverso la Tunisia, Roma è terrorizzata dal fatto che la caduta di Saied potrebbe aprire le porte a nuove ondate di migranti. Ed è una tragica ironia che sia proprio Saied ad aver abbracciato una variante nordafricana della teoria della “grande sostituzione“, cacciando i migranti africani fuori dal paese – anche a nord, verso l’Europa.

Mentre gli Stati Uniti sono sempre più consapevoli della crisi della regione, è l’Europa che avrebbe effettivamente la capacità di contribuire alle riforme e alla riconciliazione, soprattutto in Nord Africa. Ma nel farlo deve continuare a far arrivare i finanziamenti, alzando allo stesso tempo la voce sul dilagare di repressione e violenza, investendo nella comunicazione per contrastare la disinformazione, nonché – e questo è il nodo più difficile da risolvere per l’Europa – trovando la capacità e il coraggio di fornire una presenza significativa in materia di sicurezza nella regione.

Questo articolo è stato pubblicato sul sito di POLITICO – Europa in data 11/04/2023

Foto di copertina EPA/MOHAMED MESSARA

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