Le buone intenzioni non bastano a garantire una buona governance. Riflessioni sul Piano Mattei

Il 20 giugno 2025, Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen si sono incontrate a Roma per un vertice sulle possibili sinergie tra i piani di cooperazione internazionale dell’Italia e dell’Europa, il Piano Mattei e il Global Gateway. Questo incontro e la seconda relazione annuale al Parlamento sul Piano Mattei, presentata dal Governo a inizio luglio, restituiscono un quadro dello stato dell’arte del Piano, dell’impegno finanziario e dei prossimi passi istituzionali per il suo avanzamento. Tuttavia, tanto il vertice quanto la relazione mettono in luce ancora una volta le difficoltà croniche legate all’attuazione del Piano. Più di ogni altra cosa desta perplessità la mancanza di chiarezza, tanto d’impianto quanto operativa, sul modo in cui gli ambiziosi obiettivi del Piano saranno effettivamente raggiunti.

Lo stato dell’arte dei progetti pilota del Piano: ambizioni senza una direzione chiara

Sono passati diciotto mesi dal lancio ufficiale del Piano Mattei in occasione del Vertice Italia-Africa, tenutosi alla fine di gennaio 2024 a Roma. Tuttavia, nonostante il proliferare di incontri ad alto livello e dichiarazioni di intenti che si sono susseguiti in questo periodo, l’architettura istituzionale e finanziaria del Piano rimane ancora ambigua. Secondo la Relazione al Parlamento, la maggior parte dei 33 progetti in corso si basa su iniziative preesistenti, invece che su progetti completamente nuovi. Il Piano continua a fare affidamento su due principali soggetti e strumenti pubblici: l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (AICS), storicamente impegnata nella distribuzione e diffusione degli aiuti allo sviluppo italiani, e il più recente Fondo per il clima istituito dal governo Draghi. La relazione ha il merito di aver fornito chiarezza sulla portata dei progetti, sugli stanziamenti finanziari e sui risultati previsti, in particolare nel settore delle energie rinnovabili, dove sono stati approvati undici progetti per promuovere un modello di “crescita verde” nei Paesi partner. In questo contesto, le piccole e medie imprese (PMI) sono considerate fondamentali per la trasformazione economica locale, segnando un cambiamento rispetto ai primissimi progetti del Piano Mattei che erano invece quasi interamente guidati da grandi gruppi industriali.

Tuttavia, sia la Relazione che il Vertice di giugno hanno evidenziato una persistente mancanza di chiarezza operativa: i tempi, i meccanismi di governance e i finanziamenti dedicati ai singoli progetti, ad eccezione di quelli menzionati in precedenza, rimangono tutti piuttosto vaghi sia nei documenti scritti che nelle dichiarazioni.

Le informazioni disponibili su Medlink, il corridoio energetico basato sul sistema di trasmissione di corrente continua ad alta tensione (HVDC nell’acronimo inglese) che collega Algeria, Tunisia e Italia, rappresentano un esempio plastico di cosa significhi questa lacuna all’atto pratico. Pur incarnando la visione del Piano – partenariato paritario – e pur facendo parte del Global Gateway dell’Ue, il progetto non è ancora andato oltre la fase di progettazione: la tabella di marcia per la sua attuazione, l’allineamento agli standard normativi e gli impegni di finanziamento rimangono indefiniti.

La cifra nominale dichiarata di 5,5 miliardi di euro associata al Piano fornisce un importo complessivo, ma non dettaglia gli investimenti concreti e specifici per ogni progetto – anche qui, con quelle stesse eccezioni che sono state citate in precedenza. Questo schema si applica anche ad altre nuove iniziative annunciate nella Relazione, come i progetti sanitari di Abobo (Costa d’Avorio) e Shire (Etiopia), il potenziamento dell’infrastruttura idrica di Brazzaville (Congo) e la proposta di estensione del cavo digitale Blue Raman, che attualmente coinvolge i paesi della Penisola Araba, l’Italia e l’Egitto, fino all’Africa orientale. Tutti questi progetti sono descritti come prioritari nella Relazione, ma rimane un’incertezza di fondo sulla loro programmazione, sulle modalità di supervisione e sul piano di finanziamento specifico.

L’impressione generale che se ne deriva a questo punto è che il Rapporto riproponga per lo più iniziative già avviate in precedenza, mentre fatica a mostrare effettivi elementi di novità portati avanti dal Piano. La governance rimane frammentata e opaca, con la società civile africana, le PMI e le comunità della diaspora ancora relegate ai margini del processo decisionale al di fuori di qualche sporadico episodio virtuoso. La dipendenza dalle grandi imprese italiane domina il panorama a scapito di soluzioni più inclusive e centrate sulle comunità locali, e la promessa di una crescita verde è ulteriormente minata dagli investimenti in corso nei combustibili fossili, che contraddicono gli obiettivi climatici e possono far ricadere sui partner africani alcune possibili esternalità negative a lungo termine. Questo approccio rischia di allontanare gli stakeholder locali, di perpetuare la percezione di uno sfruttamento interessato delle risorse africane e di perdere l’opportunità di realizzare un’autentica ownership locale e una capacità a lungo termine nei Paesi partner. La stessa Relazione dà peso a queste possibili criticità e riconosce queste potenziali tensioni, ma offre poca chiarezza su come possano essere effettivamente risolte, sottolineando la necessità di un approccio più coerente, operativo ed equilibrato se si vuole che il Piano realizzi le sue ambizioni.

Ampliare i pilastri del Piano

I settori emergenti, come l’innovazione digitale, la gestione sostenibile delle acque e le economie marittime, sono sempre più riconosciuti come prioritari nell’agenda del partenariato euro-africano, risuonando sia con la strategia Global Gateway dell’Ue sia con le ambizioni dell’Italia nell’ambito del Piano Mattei. Un’integrazione più sistematica di questi settori rafforzerebbe l’allineamento del Piano con le più ampie strategie europee e con le esigenze di sviluppo dell’Africa. Tuttavia, come sottolineato nel rapporto di luglio 2025 e ribadito al vertice di Roma, queste iniziative possono avere un impatto duraturo solo se sostenute da quadri normativi chiari, accordi istituzionali coordinati e meccanismi di supervisione credibili. Il dialogo per colmare queste lacune, tuttavia, procede lentamente tanto a livello nazionale che a livello dell’Ue.

Per quanto riguarda le iniziative nazionali, la Relazione riconosce la mancanza di un quadro di governance unificato e sottolinea la necessità di un maggiore coordinamento interministeriale e soprattutto di un migliore allineamento con gli strumenti dell’Ue. Sebbene il Comitato Tecnico esistente svolga un ruolo importante nella valutazione e nell’approvazione dei progetti nell’ambito del Fondo italiano per il clima, il suo mandato rimane in gran parte amministrativo e specifico per i progetti. Manca un’autorità in grado di guidare l’armonizzazione normativa con i regolamenti dell’Ue, supervisionare la pianificazione a lungo termine e garantire l’inclusione di realtà che non siano strettamente connesse agli attori governativi. A questo proposito, il vertice Meloni-Von der Leyen ha proposto la creazione di occasioni di dialogo congiunto Italia-Ue-Africa volte a definire standard normativi comuni per i mercati dell’energia e del digitale, nonché a sfruttare strumenti dell’Ue come NDICI-Global Europe per finanziare e monitorare progetti in linea con questi standard normativi.

Chiarezza giuridica e capacità istituzionale sono centrali per raggiungere gli obiettivi legati a piani di sviluppo verde e inclusivo. Un sistema di regolamentazioni frammentate o incoerenti mina invece sia gli incentivi agli investimenti sia i possibili risultati di questi tentativi di sviluppo. In questo senso, la sfida del Piano Mattei è quella di creare un’architettura normativa e di governance in grado di tradurre i flussi di investimento in benefici tangibili e duraturi, puntando anche a richiamare l’appeal del normative power europeo che viene spesso riconosciuto come principale asset proposto da Bruxelles nei suoi progetti con ambizioni globali. Inoltre, in assenza di un chiaro quadro di governance, anche le iniziative ben finanziate rischiano di essere duplicate, inefficienti e con un impatto limitato sul territorio.

La conversione del debito è un potenziale punto di svolta?

Durante il vertice del 20 giugno, è tornata l’idea di cancellare parte del debito per alcuni gruppi selezionati di Paesi africani. Il tema del debito non è una novità nell’approccio italiano alla cooperazione con il continente: già in passato Roma aveva appoggiato iniziative di conversione o cancellazione del debito o addirittura se ne era fatta portatrice, in un esempio di sostanziale convergenza tra società civile e sensibilità politica. Un esempio che vale la pena ricordare, in questo senso, è quello dell’iniziativa Sdebitarsi, che l’Italia aveva sostenuto pubblicamente nell’ambito di una campagna poi divenuta globale e che aveva raggiunto l’apice nel 2000, nel contesto del precedente Giubileo, costruendo un parallelismo interessante con l’anno in corso.

Un nuovo progetto, presentato dalla Meloni durante il vertice, mira a convertire l’intero ammontare del debito dei Paesi a basso reddito, identificati secondo i criteri della Banca Mondiale, e a ridurre del 50% quello dei Paesi a reddito medio-basso. L’intera operazione, da realizzare nel corso dei prossimi dieci anni, consentirebbe di convertire circa 235 milioni di euro di debito in progetti di sviluppo da realizzare in loco.

La questione della riduzione del debito potrebbe anche essere utilizzata per raccogliere il consenso internazionale intorno al Piano e innestarlo nelle principali iniziative multilaterali. Il 30 giugno 2025, per esempio, si è tenuta a Siviglia la Quarta Conferenza internazionale delle Nazioni Unite sul finanziamento dello sviluppo. Il documento finale sottoscritto dai Paesi partecipanti delinea esplicitamente l’ambizione di affrontare la crisi cronica del debito per i Paesi con bassi redditi. Questo tentativo non nasce dal nulla: oltre a essere un tema di cui si occupano spesso numerosi gruppi della società civile africana, europea e mondiale, la questione è presente anche nelle strategie di approccio all’Africa di altri Paesi europei. È il caso, ad esempio, della Strategia Spagna-Africa 2025-2028, portata avanti simbolicamente proprio dal Paese che ha ospitato la conferenza del 30 giugno. Il Piano Mattei potrebbe fare un passo avanti sostenendo un approccio coordinato dell’Ue agli swap debito-sviluppo che promuovano investimenti verdi e inclusivi in settori come la salute, l’istruzione e le infrastrutture sostenibili. L’aggiunta di un’iniziativa di riduzione del debito potrebbe aiutare il Piano Mattei a superare la dimensione nazionale, raccogliendo il sostegno di altri partner affini.

Colmare un vuoto: opportunità e limiti dell’approccio italiano

Guardando a una prospettiva globale, in un contesto internazionale in cui il sistema di aiuto allo sviluppo è messo a dura prova dal brusco cambio di direzione di Washington, di cui massimo esempio è lo smantellamento di USAID, il Piano Mattei potrebbe cercare di colmare un vuoto. Anche se le risorse a disposizione non sono ovviamente paragonabili a quelle degli Stati Uniti, il Piano può delineare un modello alternativo agli attuali paradigmi e fungere da modello per un più ampio sviluppo delle infrastrutture e per l’inclusione di partner non africani in iniziative coordinate e multi-attoriali.

L’impegno italiano di 250 milioni di euro per il Corridoio di Lobito è un esempio di questo genere di tentativi da parte di Roma di far sentire la propria voce. Il corridoio di Lobito è un progetto infrastrutturale che ha una storia quasi centenaria fin dalla sua prima formulazione. Esso serviva a mettere in comunicazione le regioni dell’entroterra dell’Africa Australe con la costa angolana nel porto di Lobito e con gli sbocchi commerciali garantiti dall’oceano Atlantico. La sua riproposizione odierna nasce come uno sforzo congiunto dei governi africani dei Paesi interessati, vale a dire Angola, Zambia e Repubblica Democratica del Congo, la Commissione Europea, gli Stati Uniti, le banche di sviluppo multilaterali africane e globali e alcuni attori del settore privato. Con l’intervento di tutti questi attori, il Corridoio mira a migliorare la connettività commerciale africana, a garantire materie prime critiche per l’Europa e a diversificare le rotte di trasporto lontano da vulnerabili punti di strozzatura marittimi. L’ambizione strategica di fondo, poi, è quella di costruire un’alternativa per i partner africani ai progetti cinesi legati alla Belt and Road Initiative e contestualmente di limitare la crescente presenza della Russia nelle catene di approvvigionamento delle risorse.

Tuttavia, questa ambizione rimane ancora disattesa o quantomeno limitata sotto alcuni punti di vista.

La partecipazione finanziaria dell’Italia al Corridoio, annunciata nel corso della riunione dei capi di Stato e di Governo del G7 presieduto proprio dall’Italia, è limitata rispetto a partner più grandi come la Banca africana di sviluppo e gli Stati Uniti, ma è comunque notevole. Inoltre, pur non essendo forse determinante per il successo del progetto Corridoio di Lobito in sé, rappresenta il maggior contributo di un Paese europeo fino a oggi. Tuttavia, non è chiaro se e come Roma cercherà di tradurre il suo impegno finanziario in una significativa partecipazione industriale per le aziende italiane, né sono previsti chiari meccanismi per raggiungere un derisking degli investimenti privati in quei territori interessati dalle infrastrutture del Corridoio che rimangono politicamente instabili. Non c’è poi alcun impegno vincolante riguardo agli standard ambientali, sociali e di governance (ESG), che sono centrali per la politica commerciale e di investimento dell’Ue.

Senza una definizione più forte del ruolo istituzionale dell’Italia e un quadro operativo più chiaro, il Corridoio di Lobito rischia di diventare non tanto un modello di impegno coordinato ed equo per il coinvolgimento dei partner affricani, quanto piuttosto un contributo per lo più simbolico con un impatto limitato. Preoccupazioni che valgono anche per il Piano Mattei nel suo complesso, fino a quando la sua governance e le sue azioni non saranno più saldamente integrate e responsabilizzate sulla base degli standard europei.

Filippo Simonelli ricopre il ruolo Junior Researcher presso lo IAI per il programma “Politica estera dell’Italia”. Sta svolgendo un dottorato di ricerca sulla Public Diplomacy dell’Unione europea nelle crisi internazionali presso l’Università di Siena sotto la guida del professor Francesco Olmastroni.

Diego Caballero-Vélez

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