L’arma di pressione delle sanzioni e la vulnerabilità dell’economia russa

Tre anni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la guerra resta lontana da una tregua. Solo il sostegno militare e finanziario all’avanzata dell’esercito ucraino unitamente all’inasprimento delle sanzioni economiche potrebbe costringere Putin a ricercare un accordo di pace sostenibile per Kyiv e l’Occidente.

Il diciannovesimo pacchetto di sanzioni elaborato dalla Commissione europea – ora in fase di approvazione – costituisce un passo importante per colpire le fondamenta economiche e materiali della macchina da guerra russa. Ed è tanto più rilevante alla luce delle difficoltà che l’economia di Mosca sta affrontando: non si tratta di un crollo imminente, ma di segnali crescenti di vulnerabilità.

Ma serve il sostegno degli Stati Uniti per trasformare questa fragilità in leva politica. Alcune delle condizioni poste recentemente da Trump ai paesi europei e NATO per varare nuove misure economiche restrittive nei confronti di Putin sono state accolte nel nuovo pacchetto europeo. Sta ora all’Amministrazione americana dimostrare che aver posto alcune condizioni impossibili, quali l’imposizione da parte europea di dazi proibitivi verso India e Cina, non sia stato solo un pretesto – come molti pensano – per rinviare ancora una volta il varo di nuove sanzioni e scaricarne la responsabilità sui paesi europei.

Il nuovo pacchetto e le condizioni di Trump

Dall’inizio del suo nuovo mandato, Trump ha accuratamente evitato di introdurre nuove sanzioni contro Mosca, nonostante le sollecitazioni delle capitali europee. Anche in occasione del vertice con Putin in Alaska, nell’agosto scorso, aveva prima minacciato un irrigidimento delle misure in assenza di un accordo, per poi non farne niente.

Più di recente ha promesso nuove sanzioni ma a condizione che i Paesi europei e della NATO cessino totalmente di acquistare energia russa e impongano altresì dazi pesantissimi (dal 50 al 100%) su Cina e India, i due paesi principali acquirenti del greggio di Mosca.

Alcune delle condizioni poste da Washington sono state accolte nel nuovo pacchetto di misure europee che rappresenta una sorta di controproposta a Trump. Bruxelles ha infatti deciso di anticipare di un anno alla fine del 2026 l’eliminazione delle importazioni di gas naturale liquefatto russo, rispetto alla scadenza già fissata alla fine 2027. Una decisione che per la necessità di reperire rapidamente fonti alternative comporterà consistenti maggiori acquisti di GNL dagli Stati Uniti. Inoltre, il pacchetto europeo mira a colpire raffinerie e società intermediarie, di Paesi terzi in generale inclusi India e Cina. che continuano ad acquistare petrolio russo eludendo le restrizioni

Resta però fuori dalla nuova agenda europea la proposta americana di imporre dazi punitivi verso Cina e India. L’Ue non ha in effetti alcun interesse ad aprire una guerra commerciale con le due superpotenze Asiatiche, mentre ha riaperto e porta avanti delicati negoziati di libero scambio con Nuova Dehli e mantiene con Pechino una strategia complessa di confronto, che combina competizione, rivalità e cooperazione. Allinearsi alla guerra tariffaria scatenata da Trump significherebbe mettere a rischio equilibri economici e strategici oggi fondamentali per l’Unione, proprio in risposta alla crociata protezionistica di Trump.

Il comparto energetico e il ruolo americano

Il cuore delle nuove misure europee resta il settore energetico e, in particolare, il controllo sul trasporto marittimo del petrolio russo. Il pacchetto include nella lista nera della cosiddetta “flotta ombra” altre 118 petroliere (il totale è 560) con l’obiettivo di ostacolare le triangolazioni che consentono a Mosca di aggirare i divieti. Ma il monitoraggio dei flussi marittimi si conferma complesso e i dati dimostrano che l’impatto delle sanzioni è molto più efficace quando vi è piena coordinazione tra Stati Uniti e Ue. Secondo il CREA, le navi colpite da sanzioni di tutte e tre le potenze hanno ridotto i traffici del 59%, contro appena il 22% delle navi sanzionate solo dall’Unione europea. La reale incisività delle misure restrittive dipende dunque dalla volontà americana di affiancare l’Europa con restrizioni equivalenti e con un’applicazione più rigorosa di quelle già in vigore. Sarà dunque Trump a decidere circa la controproposta dell’Unione.

La crescente fragilità dell’economia russa

L’inasprimento delle sanzioni nei prossimi mesi, in particolare nel settore energetico e nel trasporto marittimo, potrebbe certamente esercitare una pressione decisiva sul Cremlino tenuto conto delle condizioni di vulnerabilità in cui versa – come già scritto – l’economia russa. Dopo la fase di apparente prosperità del biennio 2023-24, sostenuta da un’espansione della spesa militare senza precedenti oltre il 6% del PIL – il livello più alto dai tempi sovietici –che aveva permesso di più che compensare il primo impatto delle sanzioni occidentali, la crescita nell’ultimo anno si è rapidamente arrestata. Le stime per il 2025 indicano un modesto +1%, segno di stagnazione. Settori industriali cruciali, come quelli automobilistico e dei camion, registrano crolli rispettivamente del 28% e del 40%, mentre molte aziende riducono gli orari di lavoro. Parallelamente, l’inflazione supera il 15%, facendo salire i prezzi dei beni essenziali e aggravando le condizioni di vita di una larga fetta della popolazione già colpita da livelli elevati di povertà.

Il nodo centrale resta comunque l’energia, che garantisce oltre la metà delle entrate federali. Nel luglio scorso i ricavi da petrolio e gas sono diminuiti del 30% rispetto all’anno precedente, raggiungendo il livello minimo dal gennaio 2023. La causa è la diminuzione del prezzo del petrolio russo quale riflesso degli sconti imposti dalle restrizioni occidentali e in un contesto di prezzi internazionali relativamente bassi. Allo stesso tempo, il deficit pubblico si amplia per effetto delle spese militari, che assorbono oltre il 40% del bilancio statale, obbligando tagli del welfare e del sostegno all’economia civile.

Le difficoltà sono aggravate dall’impossibilità di accedere ai mercati finanziari internazionali. Mosca deve così ricorrere al Fondo Nazionale di Ricchezza, alimentato dai proventi delle esportazioni energetiche, ma con riserve liquide che si sono ridotte in tre anni da 135 a 35 miliardi di dollari. Se il prezzo del petrolio scendesse ulteriormente, queste risorse si esaurirebbero in tempi molto brevi, esponendo il Cremlino a una rovinosa crisi finanziaria.

La leva economica come strumento strategico

Il mito di una Russia capace di sostenere indefinitamente una “guerra eterna” non trova conferma nei dati economici. Le spese militari senza limiti e la dipendenza dai proventi energetici rendono Mosca vulnerabile a shock esterni e all’efficacia delle sanzioni. Queste ultime non costituiscono certo una soluzione definitiva, ma restano un passaggio essenziale per spingere Putin a riconsiderare la prosecuzione del conflitto.

Ora è importante che il pacchetto proposto dalla Commissione venga approvato rapidamente dai 27 Stati membri, un fatto quest’ultimo tutt’altro che scontato. Come assai rilevante sarebbe un accordo sull’uso delle riserve congelate della Banca centrale russa, per sostenere l’Ucraina e aumentare la pressione sul Cremlino. Secondo le più recenti proposte in sede G7 e Consiglio europeo, si prevede di usare le giacenze legate agli asset russi immobilizzati per fornire all’Ucraina un prestito di riparazione, che dovrà iniziare a rimborsare solo quando la Russia pagherà le riparazioni di guerra.

Resta decisivo comunque costruire una reale coesione di intervento con gli Stati Uniti. Solo il peso del dollaro e del sistema finanziario americano può conferire piena efficacia alle restrizioni, sia nel ridurre le entrate russe, sia nell’indebolire le relazioni commerciali che Mosca mantiene con Paesi terzi. Trasformando la pressione economica in una leva capace di spingere Putin al tavolo negoziale prima di quanto oggi preveda, evitando ulteriori devastanti costi umani del conflitto.

Consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali e ordinario di economia presso l'Università degli studi di Roma La Sapienza.

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