La “normalizzazione” della Siria passa da Abu Dhabi

Nello stupore disattento delle cancellerie occidentali, assorbite dalle vicende ucraine, il 18 marzo scorso il Presidente della Siria Bashar al-Assad si è recato in visita negli Emirati Arabi Uniti. Lo ha reso noto l’ufficio della Presidenza siriana con un ampio corredo di foto celebrative. A distanza di pochi giorni dall’undicesimo anniversario delle rivolte siriane e nel suo primo viaggio in un Paese arabo dallo scoppio della guerra (fino ad ora solo Mosca e Teheran avevano ospitato Assad), il Presidente siriano ha incontrato l’erede al trono Mohammed bin Zayed al-Nahyan (MBZ) e il premier e ministro della Difesa, Mohammed bin Rashid Al-Maktoum.

Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa emiratina, le parti avrebbero discusso su varie questioni di interesse (tra le altre – si legge –, il mantenimento dell’integrità territoriale siriana e il ritiro delle forze straniere dal Paese), enfatizzando le “relazioni fraterne” che legano i due Paesi e l’importanza della Siria come pilastro fondamentale della sicurezza araba. Parole che hanno destato un certo disappunto presso l’amministrazione USA, che si è detta “spiazzata” dalla visita di Assad. Il portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price, ha sottolineato la “profonda delusione” di Washington di fronte a quest’ultimo tentativo di riabilitazione di Assad, ribadendo la ferma opposizione americana a qualsiasi processo di normalizzazione.

Le relazioni USA-EAU

Per quanto gli Emirati rimangano importanti alleati di Washington, l’avvento dell’amministrazione Biden e il sempre più evidente disengagement statunitense dalla regione hanno alimentato un crescente malcontento in seno alla partnership strategica che lega i due paesi. A gennaio, Abu Dhabi era stata colpita da un attacco missilistico condotto dal gruppo yemenita degli Houthi; in tale occasione, le autorità emiratine avevano accusato Washington di non aver risposto adeguatamente tanto che nel mese successivo MBZ si era rifiutato di accogliere il capo del Comando centrale delle forze armate USA, in visita ad Abu Dhabi. Inoltre, l’ipotesi, ventilata in sede JCPOA, di una possibile rimozione dei Guardiani della rivoluzione iraniani dalla lista statunitense delle organizzazioni terroristiche aveva contribuito a raffreddare i rapporti.

La decisione degli Emirati di astenersi in Consiglio di Sicurezza ONU durante il voto per la risoluzione di condanna dell’invasione russa e il rifiuto del principe ereditario di parlare con Biden rispetto alla questione petrolifera hanno, dunque, coronato una stagione già non rosea delle relazioni bilaterali. L’atteggiamento di Abu Dhabi, unito alle tempistiche scelte, dimostra il pragmatismo realista che ne anima le politiche: gli Emirati sono, infatti, pronti a proiettarsi verso un nuovo ordine multipolare, nel quale la necessità di diversificare le relazioni con altri partners (come Cina, Russia, India) si rende quanto mai imperativa, seppur in un gioco di equilibri che permetta al Paese di trarre profitto dall’attuale crisi globale.

La strategia emiratina

La visita di Assad negli Emirati rappresenta il culmine di un processo di lunga gestazione, accelerato negli ultimi mesi e di cui Abu Dhabi si è fatta, come spesso accade, pioniera.

Del resto, l’ambasciata emiratina fu la prima ad essere riaperta a Damasco nel 2018; viceversa, la rappresentanza diplomatica siriana ad Abu Dhabi è sempre rimasta operativa, con l’Emirato divenuto, nel corso degli anni, una vera e propria valvola di sfogo dei capitali di ricchi businessmen siriani, vicini al regime (e si candida ora a diventarla anche per la Russia). Inoltre, lo stesso MBZ aveva interloquito con il Presidente siriano, offrendo, nel marzo 2020, assistenza nella lotta contro il COVID. Nell’autunno 2021, infine, i rispettivi Ministri dell’Economia si erano incontrati in occasione dell’Expo di Dubai, al quale era seguito un viaggio del Ministro degli Esteri emiratino a Damasco. Il tutto in un contesto mediorientale mutato e più favorevole ad una normalizzazione dei rapporti con Assad. Bahrain, Egitto e Giordania sembrano, infatti, apprezzare lo sforzo di mediazione di Abu Dhabi, anche e soprattutto nell’ottica di indebolire l’influenza iraniana.

L’apertura verso Damasco rientra, dunque, nel pragmatismo che permea la politica estera emiratina. Non solo la Siria è tessera imprescindibile per la costruzione di una sicurezza regionale di cui gli Emirati desiderano essere abili tessitori, ma essa ricade – grazie alla sua strategica posizione – anche nella politica neo-mercantilista di Abu Dhabi, volta a rendere l’Emirato il cuore pulsante di flussi commerciali ed energetici tra Asia, Africa ed Europa. In tale ottica, si pensi alla firma degli Accordi di Abramo ma anche al progressivo riavvicinamento emiratino ad Ankara, animato e da interessi economici/commerciali e dalla volontà di contenimento del potere iraniano.

E il futuro?

Ciò che colpisce è il silenzio assordante europeo che ribadisce, assieme alla debole posizione USA, il fallimento delle politiche occidentali in Siria. L’opportunismo diplomatico di Abu Dhabi (a distanza di qualche giorno MBZ volava in Egitto per un vertice trilaterale con al-Sisi e Naftali Bennett) sembra, dunque, tracciare un percorso di stabilizzazione regionale fondato su un’alleanza di poteri autoritari e legati al mantenimento dello status quo.

Ineludibili interrogativi sorgono, dunque, non solo in merito alle conseguenze nello scacchiere regionale ma anche per gli interessi europei, laddove su altri fronti (si pensi al sostegno ad Haftar in Libia, ai bombardamenti in Yemen, alla normalizzazione con Israele senza coinvolgimento palestinese e, infine, alla riabilitazione priva di condizionalità del regime siriano) l’ambiguità politica emiratina ha spesso vestito ruoli contrari alle politiche occidentali.

Infine, dal punto di vista regionale, non resta che chiedersi quali saranno i prossimi sviluppi considerato l’effetto traino che le iniziative emiratine hanno più volte esercitato nelle dinamiche di area. Tutti gli occhi saranno, perciò, puntati sul summit in programma a novembre della Lega Araba, dalla quale la Siria fu espulsa nel lontano 2011. Chissà che non sia questa l’occasione per sancire un definitivo reintegro di Assad nei grandi consessi regionali.

Foto di copertina EPA/RASHED AL MANSOORI

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