Mentre il conflitto fra Israele ed Hezbollah prende una piega sempre più preoccupante, l’opinione pubblica internazionale continua a interrogarsi sugli sconcertanti attacchi che hanno colpito il Libano e la Siria negli scorsi giorni. Come noto, centinaia fra cercapersone, walkie-talkie e altri dispositivi elettronici, su cui sarebbero state installate cariche esplosive, sono stati fatti detonare in due distinti attacchi. Il primo si è consumato nel primo pomeriggio del 17 settembre, mentre una seconda serie di detonazioni si è verificata a 24 ore di distanza. I due attacchi avrebbero causato oltre 40 morti e 3500 feriti. Delle vittime, 1500 sarebbero individui in qualche modo affiliati a Hezbollah, e oltre 2000 i civili.
Sussistono pochi dubbi su chi abbia orchestrato gli attacchi. Il livello di organizzazione e il know-how tecnologico necessario, oltre che le circostanze, puntano allo stato di Israele, come confermato da esponenti dell’amministrazione americana. Le autorità israeliane non hanno tuttavia voluto commentare gli accadimenti.
Lo hanno invece fatto alcuni degli organismi ONU preposti alla salvaguardia dei diritti umani. L’Alto commissario per i diritti umani Volker Türk ha dichiarato che “un attacco simultaneo contro migliaia di individui, che siano civili o membri di gruppi armati, condotto senza sapere chi fosse in possesso in quel momento dei dispositivi, la loro esatta ubicazione e chi o cosa ci fosse nei dintorni, viola il diritto internazionale dei diritti umani e, nella misura in cui è applicabile, anche il diritto internazionale umanitario”. Il giorno dopo, più di venti relatori speciali delle Nazioni unite sui diritti umani hanno rilasciato una dichiarazione congiunta dello stesso tenore. Se, come pare, gli attacchi sono attribuibili a Israele, si tratterebbe dunque di violazioni del diritto internazionale?
Qual è il diritto applicabile e chi si può attaccare?
Va anzitutto definito il contesto nel quale sono avvenuti i fatti. Fra Israele ed Hezbollah è in corso da alcuni mesi un conflitto armato a carattere non internazionale. Tale circostanza fa sì che il corpus di norme che regola il comportamento dei belligeranti sia in primo luogo il diritto internazionale umanitario (DIU). Si tratta di disposizioni racchiuse nelle celebri Convenzioni di Ginevra, nei suoi Protocolli aggiuntivi e in numerosi altri trattati che vietano o regolano l’impiego di determinati tipi di armi. Il loro intento non è quello di porre fine al conflitto, ma di limitarne il più possibile gli effetti negativi sulla popolazione civile e sugli stessi combattenti. Pertanto, il diritto internazionale ammette l’utilizzo della violenza bellica contro combattenti e obiettivi militari avversari, e uccisioni conformi alle norme di DIU non costituirebbero illeciti internazionali.
Principio cardine del DIU è proprio la distinzione fra civili e combattenti. I primi devono essere protetti dagli attacchi, a meno che non partecipino direttamente alle ostilità. Prima domanda cui dare una risposta è, dunque, se Israele fosse in grado di distinguere fra militanti di Hezbollah che è legittimo attaccare, e militanti che invece restano civili e godono dunque di immunità dagli attacchi. Essere un militante di Hezbollah, infatti, non vuol dire necessariamente far parte dell’ala militare dell’organizzazione o che si sia partecipato direttamente a operazioni belliche contro Israele. Hamas ha fra i propri militanti religiosi, medici, giornalisti e altri civili, che verosimilmente non partecipano direttamente alle ostilità e non possono dunque essere attaccati. Fonti giornalistiche riportano che – per evitare intercettazioni delle proprie comunicazioni e il rischio di venire geo-localizzati – Hezbollah abbia chiesto ai propri affiliati di rinunciare agli smartphone, sostituendoli con cercapersone e altri dispositivi, più difficili da hackerare. Ci si deve dunque chiedere quale certezza avessero i servizi israeliani che i dispositivi sarebbero effettivamente stati consegnati esclusivamente nelle mani dei combattenti di Hezbollah. Se erano a conoscenza del fatto che anche militanti non coinvolti nell’azione bellica avrebbero potuto ricevere i cerca-persona, sarebbero venuti meno al rispetto del principio di distinzione.
Come devono essere condotti gli attacchi?
Quand’anche Israele avesse la certezza che i dispositivi sarebbero finiti esclusivamente nelle mani di combattenti di Hezbollah, resta la possibilità che questi li potessero cedere (anche temporaneamente) ad amici o familiari, oppure che altri civili si trovassero vicino ai combattenti al momento dell’esplosione. Corollario del principio di distinzione è il divieto di effettuare attacchi indiscriminati. Si tratta di operazioni in cui l’attaccante non intende necessariamente colpire civili, ma non si cura di evitare di colpirli. Il DIU classifica come “indiscriminati” attacchi “dai quali ci si può attendere che provochino incidentalmente morti e feriti fra la popolazione civile (… ) che risulterebbero eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto”. In altri termini, sono indiscriminati (e quindi vietati) attacchi che possono plausibilmente causare danni collaterali sproporzionati rispetto al vantaggio che l’attaccante si aspetta di ottenere.
Bisogna dunque domandarsi, anzitutto, quale fosse il vantaggio militare previsto da Israele. Mettere fuori combattimento un gran numero di combattenti nemici porta senz’altro un vantaggio sostanziale, che va però bilanciato con le possibili vittime civili. Quel che pare inverosimile è che Israele avesse contezza del potenziale numero di civili che sarebbero stati feriti o uccisi facendo esplodere contemporaneamente tutti i dispositivi. Difficilmente gli agenti coinvolti avrebbero potuto monitorare la posizione delle migliaia di cercapersone e walkie-talkie distribuiti da Hezbollah, e valutare quanti civili l’esplosione di ciascun dispositivo avrebbe potuto colpire. Per questo motivo, è probabile che l’attacco sia qualificabile come indiscriminato, e che costituisca dunque una violazione del DIU.
Anche l’utilizzo dei dispositivi di comunicazione come arma suscita dubbi. Il II Protocollo della Convenzione su certe armi convenzionali vieta o limita l’uso di mine, trappole e altri dispositivi. Il Protocollo definisce il termine “trappola” come “qualsiasi dispositivo o materiale concepito, costruito o adattato per uccidere o ferire, e che funziona di sorpresa quando si sposta un oggetto apparentemente inoffensivo o ci si avvicina a esso, o si compie un atto apparentemente privo di pericolo”, e il termine “altri dispositivi” come “ordigni e dispositivi collocati manualmente (…) concepiti per uccidere, ferire o danneggiare e che sono fatti esplodere a mano, mediante un comando a distanza o automaticamente dopo un certo tempo”. I dispositivi fatti esplodere sembrano poter rientrare nell’una o nell’altra categoria. Il Protocollo vieta l’utilizzo di tali dispositivi quando possano causare danni collaterali eccessivi, nel senso sopra illustrato.
L’episodio in commento chiama nuovamente in causa la volontà di rispettare il diritto internazionale nel contesto del conflitto arabo-israeliano. Le condotte di Hamas e di Hezbollah, che negli ultimi mesi hanno attaccato deliberatamente civili israeliani, costituiscono lampanti e gravi violazioni del DIU e dei diritti umani. Le tattiche di Israele, tuttavia, sembrano anch’esse integrare violazioni del diritto internazionale, come recentemente ribadito dalla Corte internazionale di giustizia delle NU.