La diplomazia della forza

Con l’accordo Trump-Netanyahu accade qualcosa di storico che va al di là del conflitto mediorientale. Per la prima volta, infatti, un’amministrazione repubblicana lega a sé stessa e alla destra globale l’idea di pace, diplomazia e mediazione: concetti tradizionalmente associati alle amministrazioni democratiche negli Stati Uniti e al mondo progressista.

Vediamo quali sono i chiaroscuri dell’accordo, uno per uno. L’accordo ha giustamente suscitato speranze da entrambe le parti del conflitto, soprattutto perché vi sono alte probabilità che la prima parte dell’intesa, riguardante lo scambio di ostaggi israeliani contro prigionieri palestinesi, possa effettivamente essere attuata. Il coinvolgimento di Trump nell’accordo crea le condizioni necessarie affinché lo scambio avvenga. Ciò che accadrà successivamente rimane però del tutto incerto e rischia di creare le condizioni per una continuazione del conflitto o, in alternativa, di ridefinire come “pace” un’occupazione o una futura dipendenza della Striscia di Gaza da parte di Israele.

Nonostante i venti punti del piano prevedano il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia, questo avverrà solo in modo graduale, controllando inizialmente il 52% del territorio, successivamente ridotto al 40% e poi al 15%. La gradualità del ritiro è già di per sé problematica, se si considera la difficoltà di arrivare a un disarmo totale di Hamas e alla rinuncia del movimento a far parte di qualsiasi entità di governance della Striscia. In concreto, così com’è, il piano potrebbe di fatto facilitare una presenza di lungo periodo delle forze israeliane a Gaza. Anche se concentrate esclusivamente in corridoi strategici che garantiscono alla Striscia accesso alla ricostruzione e agli aiuti umanitari, tale presenza militare potrebbe comunque essere sufficiente a determinare un ruolo dominante di Israele nel definire il futuro politico ed economico della Striscia e dei suoi abitanti.

A questo si aggiunge l’assenza di qualsiasi riferimento al riconoscimento dello Stato di Palestina, la mancanza di garanzie sul futuro della Cisgiordania — dove l’annessione di territori da parte dei coloni continua — e la negazione di qualunque autorità all’Autorità Palestinese sul futuro della Striscia. Non esistono piani perfetti: i negoziati producono sempre compromessi imperfetti. Tuttavia, sebbene il piano abbia il merito di salvare vite umane da entrambe le parti, rischia allo stesso tempo di porre le basi per un effettivo consolidamento del progetto di annessione territoriale di Israele, riconoscendo ai civili palestinesi un semplice “diritto” a esistere.

Le modalità di negoziazione del piano hanno poi ridefinito i concetti di diplomazia e mediazione. Tradizionalmente concepiti come dialogo, concessione e ascolto tra le parti, il piano per Gaza è di tutto ciò proprio l’opposto. Redatto da pochissimi, circolato tra pochissimi e con minime revisioni, il piano è il più perfetto risultato della cosiddetta diplomazia della forza. Si tratta, in sostanza, di utilizzare tutte le forme di pressione — militare ed economica — sugli avversari per costringerli ad acconsentire a un accordo vantaggioso solo per la parte più forte, ma comunque definito come “processo negoziale”. Pressione e incentivi — più che consultazioni — permettono di assicurare sostegno e approvazione da parte di altri attori regionali, Turchia, Qatar e Egitto — anche se fondamentalmente esclusi dal negoziato.

Per alcuni la diplomazia alla Trump è oggi la sola possibile per placare i venti di guerra. Ma in controbattuta a questo facile argomento vi è il fatto che la diplomazia di Trump ad oggi ha solo prodotto risultati di breve periodo (cessate il fuoco alcuni addirittura conclusi dopo guerre iniziate proprio durante l’Amministrazione Trump o, al meglio, accordi temporanei) senza aver di fatto risolto nessun conflitto. Nel caso dell’accordo su Gaza, come in quello del cessate il fuoco di dodici giorni tra Israele e Iran, la diplomazia della forza produce accordi fragili che si presentano come successi, ma che in realtà posticipano il negoziato, congelano il conflitto e non lo risolvono, anzi lo allungano.

Accordi frutto della diplomazia della forza non sembrano che approfondire le ingiustizie che sono alla base dell’azione violenta, creando di fatto le condizioni perché queste si ripetano. Si ricordi poi che l’utilizzo della forza che successivamente “apre la strada” alla diplomazia è esercitato indistintamente su tutti — avversari e popolazione civile, bambini inclusi. In questo senso, la nuova diplomazia proposta da Trump è una diplomazia che non solo viola il diritto internazionale umanitario, ma che risulta essenzialmente incompatibile con esso. Facendo ciò svela e approfondisce le contraddizioni dell’Occidente — Europa inclusa — mettendo a nudo l’egoismo dei singoli governi sempre più inclini a celebrare fugaci successi di tregue e cessate il fuoco, sempre meno capaci di lavorare in contesti multilaterali per una risoluzione del conflitto, e sempre più preoccupati di frenare le critiche della propria opinione pubblica.

Nella concezione di Trump, la pace è un accordo commerciale di successo, raggiunto con ogni mezzo possibile, vantaggioso per alcuni e meno per altri. Quello che Trump ci promette con questo accordo è che può esserci pace anche senza giustizia. Parte del problema è che i responsabili del fallimento della diplomazia, intesa in senso più tradizionale, sono proprio le forze progressiste che, nel corso degli anni, non hanno saputo darle sostanza. L’amministrazione Biden, di fatto, ha rinunciato a dare sostanza a questi concetti attraverso azione, diplomazia e principi. I conservatori sono invece riusciti ad appropriarsi delle nozioni di pace, negoziato e accordo, ripensandole in termini meramente transazionali e privandole di qualsiasi valore etico a esse connesso.

Responsabile del programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dell’Istituto Affari Internazionali. È stata consigliere speciale per il Medio Oriente e Nord Africa al Centro per il Dialogo Umanitario di Ginevra (2020-2023) e all’International Crisis Group (ICG) di Bruxelles (2012-2020).

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