La crisi degli aiuti allo sviluppo: quali vie d’uscita?

Secondo il Center for Global Development, il 2025 passerà alla storia come “l’anno in cui i donatori hanno mandato in fumo i loro impegni per lo sviluppo internazionale”.

La cooperazione internazionale si trova oggi a un punto di svolta: da un lato, i bisogni legati allo sviluppo sostenibile crescono in modo esponenziale; dall’altro, i principali donatori stanno tagliando drasticamente i fondi destinati agli Aiuti Pubblici allo Sviluppo (APS, noti internazionalmente come ODA, Official Development Assistance), che comprendono sia finanziamenti bilaterali destinati direttamente ai Paesi in via di sviluppo, sia contributi erogati attraverso organizzazioni multilaterali.

Nel 2024 questi aiuti ammontavano a 212,1 miliardi di dollari, pari appena allo 0,33% del PIL globale, ben lontani dal target ONU dello 0,7% del reddito nazionale lordo per ciascun paese donatore. Il rischio di non raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) entro il 2030 è ormai altissimo: a soli cinque anni dalla scadenza dell’Agenda 2030, appena il 17% dei target globali risulta in linea con gli obiettivi, mentre la maggior parte presenta ritardi o addirittura regressi. Il divario di finanziamento per i Paesi in via di sviluppo è stimato in oltre 4.000 miliardi di dollari e potrebbe salire fino a 6.400 miliardi entro il 2030 in assenza di un deciso cambio di rotta. Eppure, invece di colmare questo gap, molti Paesi ad alto reddito stanno continuando a tagliare i fondi per lo sviluppo, con un impatto potenzialmente disastroso sulle popolazioni più vulnerabili.

Dopo aver raggiunto un picco di 223,7 miliardi di dollari nel 2023, gli APS sono calati del 7% nel 2024, segnando il primo arretramento in cinque anni. Secondo alcune proiezioni dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), per il 2025 si prevede una flessione ancora più grave, tra il 10% e il 17%: una crisi storica per l’assistenza allo sviluppo.

Gli Stati Uniti, finora il principale Paese erogatore di aiuti internazionali, guidano la ritirata: l’amministrazione Trump ha avviato tagli drastici, prevedendo una riduzione del 56% degli aiuti Usa entro il 2026 rispetto ai livelli del 2023 e cancellando l’83% dei programmi della propria Agenzia per lo Sviluppo USAID. Il vuoto lasciato, pari a circa 60 miliardi di dollari annui, è difficilmente colmabile.

L’UE e i suoi Stati membri hanno fornito il 42% degli APS globali nel 2022-2023, ma in Europa si moltiplicano i tagli: Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia e Svizzera hanno annunciato riduzioni di almeno il 25%. Solo la Spagna ha invertito il trend, aumentando il proprio contributo. L’intera architettura del finanziamento allo sviluppo è sotto pressione, con un divario crescente tra impegni formali e risorse effettive.

L’ONU parla dei “tagli più gravi mai inflitti al settore umanitario internazionale”, con conseguenze devastanti per la salute globale e la lotta alla carestia. Uno studio pubblicato su The Lancet stima che lo smantellamento di USAID potrebbe causare oltre 14 milioni di morti evitabili entro il 2030, di cui 4,5 milioni tra i bambini. I tagli minacciano anche il 47% delle organizzazioni impegnate nei diritti delle donne e rischiano di compromettere gli impegni finanziari per il clima anche perché, sebbene i fondi per il clima  dovrebbero essere aggiuntivi rispetto agli aiuti allo sviluppo, in molti casi vengono rietichettati, riducendone l’impatto effettivo.

I tagli sono ufficialmente motivati da vincoli di bilancio, crisi economiche e nuove priorità strategiche, come il ritorno dell’“America First” negli Stati Uniti e il crescente focus sulla sicurezza nazionale da parte di molti governi NATO, che stanno dirottando risorse verso la spesa militare in un clima di tensioni con la Russia e di sfiducia verso Washington. Anche in Australia, Giappone e Corea del Sud si registrano aumenti della spesa militare a scapito degli aiuti allo sviluppo. La retorica del “la carità inizia in patria” attraversa tutto lo spettro politico, alimentata da economie in contrazione e preoccupazioni per la sicurezza. Secondo alcuni osservatori, sta emergendo una dinamica di emulazione negativa tra gli Stati, che ha interrotto quella competizione virtuosa che per decenni, all’interno del Comitato per l’Assistenza allo Sviluppo dell’OCSE (Development Assistance Committee, DAC), aveva spinto i donatori a presentare i propri sforzi in modo positivo e a garantirne la massima efficacia sin dal 1961. Oggi, gli APS appaiono sempre più ostaggio di dinamiche politiche interne, con governi riluttanti ad assumere nuovi impegni e una tendenza crescente a erogare gli aiuti sotto forma di prestiti agevolati piuttosto che di sovvenzioni.

Se Trump liquida gli APS come inutili sprechi, la cooperazione allo sviluppo è in realtà da tempo oggetto di critiche ben più serie e articolate. Molti esperti ritengono il modello attuale obsoleto, inefficace se non addirittura controproducente: si denuncia la crescente esternalizzazione a consulenti privati e la tendenza a servire gli interessi strategici dei donatori, rafforzando la propria sfera di influenza. Si è anche perso il legame con la missione originaria dello sviluppo, come dimostra lo spostamento dell’attenzione verso emergenze a breve termine, che finisce per compromettere obiettivi di lungo periodo come la riduzione della povertà. Infatti, sempre più spesso spese interne come l’accoglienza dei rifugiati nei Paesi donatori vengono conteggiate come APS, gonfiando i numeri record del 2023. In effetti, il calo attuale è dovuto anche al ridimensionamento di queste voci, oltre alla riduzione degli aiuti all’Ucraina, del supporto umanitario e dei contributi alle organizzazioni internazionali.

Alcuni esperti considerano l’attuale crisi un’occasione storica per ripensare il sistema di assistenza allo sviluppo. Tra le priorità: rafforzare la localizzazione degli aiuti, riducendo la dipendenza da forniture esterne che possono compromettere interventi salvavita, come nel caso degli alimenti terapeutici pronti all’uso (RUTF) prodotti negli Stati Uniti. Al contempo, si sottolinea la necessità di diversificare le fonti di finanziamento, coinvolgendo nuovi donatori statali (come Cina, India e Paesi del Golfo) e fondazioni filantropiche, e promuovendo l’uso dei Diritti Speciali di Prelievo del Fondo Monetario Internazionale, ad esempio sotto forma di prestiti attraverso le banche multilaterali di sviluppo per finanziare investimenti di sviluppo. Alle Conferenze ONU sul finanziamento per lo sviluppo – dalla prima a Monterrey nel 2002 fino all’ultima di quest’anno a Siviglia – sono da tempo discusse diverse linee di azione per il reperimento di nuove risorse. Uno degli obiettivi centrali è la mobilitazione delle risorse interne nei paesi beneficiari attraverso un miglioramento della riscossione fiscale e un più efficace contrasto all’evasione. Temi ricorrenti sono anche nuove forme di tassazione globale a livello internazionale, come una carbon tax, una tassa sulle transazioni finanziarie o sui biglietti aerei di prima classe. Si punta inoltre a un maggiore contributo del capitale privato con nuovi strumenti di finanza mista.

Nessuna soluzione è definitiva e persistono ostacoli rilevanti: investimenti privati in calo a causa di alti tassi e rischi percepiti, filantropia che si trasforma in filantrocapitalismo, quando applica logiche di mercato allo sviluppo e impone priorità dettate dai donatori, banche multilaterali di sviluppo spesso inadatte nei mercati più vulnerabili perché lente e avverse al rischio. Al centro resta la fragilità strutturale del sistema ONU, dipendente da fondi volontari e vincolati a usi specifici (earmarked): emblematico il caso del Programma Alimentare Mondiale (World Food Programme, WFP), colpito dai tagli al contributo USA (che ammontava al 46% del budget del WFP nel 2024) e da altri donatori europei, oggi costretto a decidere chi lasciar morire di fame. Più in generale, il sistema multilaterale soffre la resistenza dei Paesi ad alto reddito a riformare l’architettura globale del finanziamento allo sviluppo: dalla riluttanza a trasferire la governance dell’APS dal DAC dell’OCSE all’ONU, fino all’indebolimento, a Siviglia, degli impegni sulla ristrutturazione del debito dei Paesi a medio e basso reddito.

Di fronte alla crisi esistenziale che investe il senso stesso dell’assistenza internazionale, può essere utile recuperare una definizione più chiara e operativa di “sviluppo”, capace di ristabilire priorità concrete. Gli APS potrebbero concentrarsi sui contesti più fragili e sulle vulnerabilità estreme (crisi umanitarie, salute, povertà), affidando lo sviluppo a lungo termine ad altri strumenti. Perché qualsiasi transizione del sistema di cooperazione risulti credibile ed efficace, è però indispensabile una narrazione collettiva che presenti l’assistenza allo sviluppo come mera beneficenza, ma come un investimento strategico. Sviluppo e sicurezza sono profondamente interconnessi: la cooperazione internazionale rappresenta, oggi più che mai, una delle forme più lungimiranti di promozione della stabilità e di prevenzione delle crisi.

Sara Vicinanza ha svolto un tirocinio presso il Programma Multilateralismo e Governance Globale dell’Istituto Affari Internazionali (IAI)

Sara Vicinanza

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