Quando la 22enne Mahsa (Zhina) Amini è morta in custodia a seguito delle percosse subite per mano della polizia “morale” iraniana il 16 settembre 2022, nessuno si sarebbe aspettato una risposta così ampia e strutturata della società civile iraniana.
Sono anni che la società civile iraniana continua a organizzare manifestazioni di protesta, ma tutto finora è rimasto uguale. Come non ricordarsi del gesto eroico di Vida Movahed che il 27 dicembre 2017 si arrampicò su una centralina, si tolse il suo velo bianco, lo legò ad un bastone e cominciò a sventolarlo. La ragazza della Via della Rivoluzioni, molti la ricordano così, fu subito arrestata e condannata a un anno di detenzione. Il suo gesto diede vita a un moto rivoluzionario delle donne che, però, fu presto represso.
La repressione delle proteste
La morte di Mahsa (Zhina) Amini ha, invece, scatenato una rivolta popolare senza precedenti che continua in tutto il Paese. Le proteste si sono rapidamente diffuse in tutte le province, la stessa rapidità con la quale sono state ordinate azioni di controllo e repressione, ricorrendo anche all’uccisione, se necessario. Le autorità iraniane hanno utilizzato in maniera estesa e illegale munizioni, pallini di metallo e gas lacrimogeni contro chiunque sia sceso in piazza a manifestare. Non è stato risparmiato nessuno, nemmeno i bambini. In troppi sono stati picchiati e maltrattati.
Amnesty International ha registrato i nomi di centinaia di manifestanti e passanti uccisi illegalmente dalle forze di sicurezza, tra cui almeno 44 bambini. Centinaia di altri sono stati accecati o hanno subito altre gravi lesioni agli occhi a causa delle pallottole metalliche utilizzate dalle forze di sicurezza. Migliaia di persone hanno riportato ferite per le quali molti non hanno chiesto assistenza medica per paura dell’arresto. Secondo alcune organizzazioni locali, da quando sono iniziate le proteste, le autorità iraniane hanno ucciso cinquecento persone e ne avrebbero arrestate ventimila. Difficile oggi riuscire ad avere un numero certo perché c’è tanta paura di subire ritorsioni per qualsiasi tipo di denuncia.
Arresti, condanne a morte, esecuzioni
La situazione è cambiata dopo le quattro esecuzioni avvenute tra dicembre e gennaio, che hanno portato a modalità e tempi di protesta nuovi. Sebbene le mobilitazioni di piazza siano diminuite, non è diminuita la volontà di andare avanti nella richiesta di giustizia e libertà. I muri e gli spazi pubblici delle città hanno cominciato a ricoprirsi dello slogan guida di questa rivoluzione: “donna, vita, libertà”. Possiamo trovarlo scritto sui muri come in striscioni che compaiono di notte su monumenti pubblici così come, all’improvviso, di notte possiamo ascoltare le persone ritrovarsi sui tetti e sui balconi a gridare insieme lo slogan in solidarietà con chi ha perso una persona cara, con chi è ancora detenuto. Perché è vero che molte persone sono state rilasciate nelle ultime settimane, ma la verità è che nessuna di loro avrebbe dovuto trascorrere un solo giorno in carcere.
Siamo felici di aver potuto festeggiare il rilascio delle attiviste iraniane Yasaman Aryani e sua madre Monireh Arabshahi. Erano state arrestate nel 2019 e condannate ad anni di carcere solo per essersi battute per i diritti delle donne e contro l’obbligo del velo. Ma, appena uscite, il loro urlo liberatorio, segno di un coraggio e di una determinazione incredibili, è stato: “donna, vita, libertà!”. Il messaggio è chiaro: i rilasci delle ultime settimane non saranno sufficienti a bloccare un processo inarrestabile. Le donne e le ragazze continuano a sfidare coraggiosamente le leggi sul velo obbligatorio apparendo a capo scoperto in pubblico. La cosiddetta ‘Generazione Z’, che tanto ha perso in termini di vite in questi quasi sei mesi di rivolta, non è disposta a rinunciare alla libertà.
I diritti delle bambine minacciati
Le donne e le ragazze continuano a essere in prima linea nella rivolta popolare, sfidando decenni di discriminazione e violenza basate sul genere. Hanno sfidato l’obbligo discriminatorio e degradante della legge sul velo che obbliga donne e ragazze, anche quelle di sette anni, a coprirsi i capelli con un velo contro la loro volontà.
Queste ragazze ora si trovare a sfidare un nuovo nemico: l’intossicazione. Secondo le informazioni della BBC persiana, dal 30 novembre fino al 26 febbraio, almeno 830 studenti, tra cui 650 studentesse, più due insegnanti sono stati intossicati. Il primo caso è stato registrato nella città iraniana di Qom, a sud-ovest di Teheran, dove centinaia di ragazze sono finite in ospedale con sintomi di intossicazione grave per via respiratoria. Qom è la città d’eccellenza per gli studi sciiti in Iran.
Ad oggi non ci sono conferme su origini e cause degli attacchi. Cominciano ad arrivare le prime dichiarazioni ufficiali al riguardo che, come capita spesso in Iran, attribuiscono la responsabilità ad agenti stranieri che vogliono minare la pace del paese. Questi episodi di intossicazione che portano alla chiusura delle scuole, in particolare delle classi femminili, riportano alla mente episodi simili registrati in Afghanistan tra il 2010 e il 2015. Anche in quel caso, erano le ragazze a subire gli attacchi e a dover rinunciare alla scuola. Oppure quello che avvenne a Isfahan nel 2014, quando sei ragazze furono sfigurate con dell’acido da gruppi di motociclisti perché mal velate.
Le esecuzioni delle minoranze
Alla violenza e alla discriminazione di genere denunciate in tutto il paese, dobbiamo aggiungere una spaventosa ondata di esecuzioni che ha colpito le minoranze etniche dell’Iran dall’inizio del 2023. Nei primi due mesi dell’anno le esecuzioni sono state almeno 94, più di quelle registrate nel primo bimestre del 2022, spesso accompagnate da denunce di violenza sessuale e di altre forme di tortura. Tra dicembre 2022 e gennaio 2023, almeno sei giovani della minoranza beluci sono stati condannati a morte in processi separati in relazione alle proteste che hanno avuto luogo nel Sistan e nella provincia del Baluchistan nel settembre 2022.
La determinazione e il coraggio della società civile iraniana non sembrano arrestarsi. Il dissenso non si ferma e la situazione è in evoluzione. Da parte nostra, pemane l’obbligo di continuare a denunciare le violenze, ad essere solidali con il loro desiderio di libertà e ad essere la loro voce.
Foto di copertina EPA/ABEDIN TAHERKENAREH