Il Sudan dimenticato

Tutti concentrati sui grandi conflitti in Ucraina e a Gaza tendiamo a dimenticare e ad accantonare feroci guerre che si sviluppano poco al di là del Mediterraneo, cioè sull’uscio di casa nostra. È infatti da due anni e mezzo che nel Sudan, il grande stato africano a sud dell’Egitto, si assiste a una guerra civile fra l’esercito di Karthoum (SAF) e la milizia ribelle della cosiddetta Forza di Supporto Rapido (RSF).

Naturalmente a rimetterci sono gli inermi cittadini che subiscono massacri e violenze di ogni genere. Perché questa guerra è anche etnica e vengono quindi, preferibilmente, colpite le popolazioni non-arabe e di religione diversa da quella musulmana.

Genocidio, sfollati e crisi umanitaria senza precedenti

Le Nazioni Unite parlano ormai apertamente di genocidio e calcolano che, in questi due anni e mezzo, i morti abbiano superato la terribile cifra di 150.000. Per di più, su una popolazione complessiva di 46 milioni di abitanti, almeno 30 milioni hanno bisogno di assistenza umanitaria, 24 milioni dei quali sono a rischio carestia. Gli sfollati che cercano di sfuggire alle violenze sono ben 12 milioni e altri 4 milioni hanno cercato riparo nei paesi limitrofi in grandi campi di tende gestiti dall’Onu e dalle organizzazioni umanitarie.

Una guerra multilivello che coinvolge attori regionali

I due eserciti si sono nei fatti divisi il paese. La RSF dei ribelli ha completato la conquista della regione del Darfur a occidente e a sud, mentre l’esercito nazionale SAF di Karthoum domina al nord e sulla porzione orientale del Paese lungo il corso del Nilo e le coste strategiche del Mar Rosso. Apparentemente la guerra nasce dalla rottura della coalizione nata nel 2023 fra due generali arrivati al potere grazie ad un colpo di stato: Abdel Fattah al Burhan che comanda oggi il SAF e il ribelle generale Mohamed “Hemedti” Dagalo a capo delle RSF.

I quattro livelli del conflitto sudanese

In realtà la situazione politica è molto più complessa e consiste in diversi livelli di conflitto. Il primo è naturalmente la lotta ideologica e di potere fra i due generali che puntano al controllo dello stato. Il secondo è una decennale guerra locale, soprattutto nel Darfur, dove villaggi e milizie si contendono con azioni violente il territorio, l’acqua e le vie di comunicazione. Il terzo livello è quello delle potenze regionali, dall’Egitto, alla Libia fino all’Etiopia che sono attirate dalle risorse naturali (soprattutto oro e petrolio) e quindi parteggiano per una o l’altra delle due fazioni in lotta. Infine, il quarto livello, è più geopolitico e vede i Paesi del Golfo, dagli Emirati all’Arabia Saudita e perfino alla Turchia, voler dettare la politica e il controllo dell’intero Corno d’Africa, una volta monopolio dell’Europa (fra cui l’Italia in Somalia) e della Cina molto presente in Africa.

Il ruolo strategico del Sudan nel Mar Rosso

Va infatti ricordato che il Sudan riveste in quell’area un ruolo strategico a causa del suo affaccio sul Mar Rosso, poco al di sotto del Canale di Suez. È talmente strategico da essere monitorato e aiutato perfino dagli Stati Uniti, che nella prima presidenza Trump lo hanno addirittura inserito ufficialmente negli accordi di Abramo, volti a fare dialogare alcuni paesi musulmani con Israele, tema ancora oggi di grande attualità.

Interferenze esterne e nuovi schieramenti

Naturalmente ogni potenza esterna si muove sulla base dei propri interessi. Gli Emirati Arabi e il Generale Haftar, il boss della Libia orientale, appoggiano apertamente i ribelli della RSF mentre l’Egitto e l’Arabia Saudita parteggiano per Karthoum.

La caduta di El-Fasher e l’assenza dell’Unione Europea

Oggi siamo arrivati all’ennesimo cessate il fuoco accettato dai ribelli, ma con nessuna presa di posizione da parte del governo. Il fatto che ha convinto le grandi potenze esterne intervenire, a cominciare dagli Stati Uniti, è stata la sanguinosa caduta di El-Fasher, l’ultima città del Darfur ancora nelle mani dell’esercito nazionale. Dopo 1 anno e mezzo di assedio i ribelli sono riusciti ad espugnarla facendo una strage di oltre 2000 civili ancora asserragliati all’interno della città. Ora il Darfur è tutto nelle mani dei ribelli.

L’Unione Europea: tanta solidarietà, poca strategia

Stupisce in questa pluriennale vicenda di guerre e colpi di stato ripetuti l’assenza dell’Unione Europea. È vero che l’Ue ha dirottato grandi risorse finanziarie per affrontare la gravissima crisi umanitaria, soprattutto nel Darfur. Oggi, alla luce della decisione di Trump di sospendere tutti gli aiuti americani nel mondo (la chiusura di Usaid) l’intervento dell’Ue potrà essere di grande sollievo per una popolazione allo stremo. Ma, a parte ciò, manca una più aggressiva politica africana europea che non si limiti solo agli interventi di emergenza ma che diventi davvero un impegno strategico dell’Ue verso un continente che di fatto è centrale agli interessi politici ed economici dell’Europa.

Non basta davvero un piccolo e secondario Piano Mattei a metterci sulla giusta rotta di un grande rapporto Ue-Africa che non sia solo di belle parole ma di contributo concreto alla pacificazione. Ma stupisce ancora di più che questa pluriennale carneficina sia solo sfiorata dai nostri media e che l’opinione pubblica sia distante dalla tragedia africana. Si sono versati fiumi di inchiostro per le stragi di Gaza, un po’ di meno per le vittime civili in Ucraina. Quasi nulla per il Sudan.

Esperto di questioni europee e di politica estera, è Presidente del Comitato dei Garanti e Consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali. È pubblicista e editorialista per Vita trentina (dal 2019) e Corriere del Trentino – Gruppo Cds (dal 2020).

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