Il futuro di Israele nelle mani di ‘Bibi’

Dopo tredici settimane di proteste, uno sciopero generale che ha paralizzato il Paese impendendo anche arrivi e partenze in aeroporto, dopo frenetici e convulsi incontri di maggioranza, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha bloccato la riforma della giustizia. Una decisione che era nell’aria, costata a ‘Bibi’ un lavoro di mediazione molto intenso con gli alleati di estrema destra che avevano minacciato di lasciare il governo, ma hanno tenuto le posizioni in coalizione in cambio di alcune concessioni.

Ora si guarda avanti. La riforma della giustizia si farà comunque, fanno sapere fonti governative, è necessario riscrivere le regole dei rapporti fra i due organi dello stato. Si farà più avanti, intanto si cerca una sponda con l’opposizione, almeno con coloro che sono favorevoli ad una riforma della giustizia, ma che non hanno condiviso forma, presentatori e, in parte, sostanza dei cambiamenti voluti da Netanyahu e i suoi sodali. Già martedì, il giorno dopo il grande blocco del paese, esponenti di maggioranza e opposizione si sono incontrati con il presidente Herzog  per definire le regole di ingaggio. Riforma necessaria, si diceva, ma perché?

Le proteste e il ruolo della Corte Suprema

La riforma della giustizia che il governo di Benjamin Netanyahu intende portare avanti e che ha scatenato le feroci proteste della piazza con manifestazioni che durano da tredici settimane, interessa principalmente l’istituto della Corte Suprema. Questa è l’unico contraltare rispetto al potere dell’esecutivo e del parlamento, dal momento che nemmeno il presidente israeliano ha il potere di bloccare o rimandare indietro le leggi. Israele non ha una Costituzione ma 13 leggi fondamentali.

Allo stato attuale la Corte Suprema israeliana può annullare qualsiasi legge decisa dal governo con una maggioranza semplice, basandosi sia sulle leggi fondamentali, in mancanza di appoggio su queste, basandosi su un principio di “ragionevolezza”. La Corte, che ha sede a Gerusalemme, è composta da 15 giudici nominati da una commissione di 9 membri: 3 dalla Corte stessa, 2 avvocati, 4 politici scelti dal governo (2 ministri, 2 parlamentari). Questo, secondo l’attuale governo, comporterebbe un eccessivo sbilanciamento a favore del potere giudiziario su quello politico. L’obiettivo di Netanyahu è di portare a 11 i membri del Comitato (invece dei 9 di oggi) assicurando la prevalenza dei componenti di nomina politica sui tecnici.

Altra intenzione della riforma voluta dal premier sarebbe di eliminare il potere della Corte Suprema di abolire le leggi approvate dal parlamento: la Corte potrebbe decidere di bloccarle, ma il parlamento, con la maggioranza semplice di 61 membri su 120, potrebbe ribaltare la decisione della Corte. Secondo gli oppositori, in tal modo si darebbe troppo potere al governo e ciò rappresenterebbe una minaccia per la democrazia in Israele. Si chiede anche di eliminare la “clausola di ragionevolezza”, lasciando alla Corte suprema il compito di esaminare esclusivamente se una legge è aderente o meno ai princìpi espressi dalle Leggi fondamentali.

La riforma prevede inoltre che le decisioni della Corte in materia di invalidità di una legge, anche di una legge fondamentale, vengano prese con una maggioranza di almeno l’80% e non più semplice. Altro punto di discordia riguarda gli incarichi dei consulenti legali dei ministeri, che non sarebbero più indipendenti sotto il controllo del ministero della Giustizia, ma scelti con criteri politici e i cui pareri sono vincolanti.

Le ragioni del primo ministro

I sostenitori di Netanyahu fanno notare l’ipocrisia dei manifestanti che si oppongono alla riforma: ci si oppone a che la maggioranza semplice dei parlamentari eletti possa ribaltare le decisioni della Corte, ma la stessa oggi decide comunque a maggioranza semplice. E il principio di ragionevolezza, proprio non va giù. “Non siamo cittadini di serie B”, “state stravolgendo il risultato elettorale”, “il Paese non può essere ostaggio degli anarchici”, gli slogan più usati dai sostenitori di Bibi e dei suoi, scesi in strada a sostegno del governo. Sono in molti a credere che la riforma sia necessaria, anche perché il Paese ha da una parte un organo eletto, il parlamento, e dall’altro invece uno che è nominato all’interno di un piccolo e ristretto gruppo di persone che può decidere le sorti di qualsiasi cosa e di chiunque, anche solo su un principio di “ragionevolezza”.

Diversi analisti fanno notare che se  fosse stata presentata in modi e tempi diversi e magari non da Netanyahu e dal suo governo di estremisti ma da uno più moderato, la riforma avrebbe avuto altra accoglienza.
Ora Netanyahu ha in mano il pallino per cambiare il Paese. La riforma di cui si sta cominciando a discutere, dovrebbe rafforzare le leggi fondamentali e i poteri dei due organi. Qualcuno avanza l’ipotesi che si possa pensare anche ad una costituzione vera e propria. Di certo è che il premier più longevo della storia del paese ne è uscito con le ossa rotte ma non ridimensionato. Dovrà lavorare non poco per tenere a bada i sodali più estremisti. Non è escluso che si stia lavorando ad un cambio di coalizione. Altrimenti, si tornerà alle urne. Sei elezioni in cinque anni mostrano la necessità non solo di una riforma della giustizia, ma anche di una elettorale.

Foto di copertina EPA/ABIR SULTAN

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