La democrazia in Tunisia può essere salvata?

Anche quest’anno il 14 gennaio è festa nazionale in Tunisia. Si commemora la caduta del regime di Zine El Abidine Ben Ali, fuggito a Gedda in Arabia Saudita proprio il 14 gennaio del 2011 in seguito alle proteste popolari scoppiate a metà dicembre 2010. Però questo potrebbe essere l’ultimo anno. In base al nuovo calendario della transizione presentato dal Presidente tunisino Kaïs Saied, il fulcro dell’anno potrebbe essere d’ora in poi il 25 luglio. Già Festa della Repubblica, questa è la data in cui il Presidente Saied nel 2021 ha annunciato la sospensione del Parlamento, ha rimosso dal proprio incarico il Primo ministro, Hichem Mechichi, e ha assunto su di sé l’autorità esecutiva. Tali mosse hanno fatto precipitare il Paese in una situazione di incertezza a più di dieci anni dall’inizio della transizione dall’autoritarismo in quello che è stato considerato all’unanimità l’unico caso di successo delle cosiddette Primavere arabe.

Dall’incertezza alle proteste

All’incertezza delle settimane iniziali è subentrata ben presto la sensazione che la Tunisia si stia ormai avviando su un corso di restaurazione dell’autoritarismo. Sebbene il Presidente abbia più volte assicurato di aver agito con l’obiettivo di difendere le istituzioni statali tunisine da rischi di derive e da pressioni e interferenze e di aver rispettato la Costituzione del 2014, con particolare riferimento all’articolo 80 circa i poteri e le misure che possono essere intraprese dal Presidente in casi di emergenza, la risposta della società tunisina non si è fatta attendere. Ciò soprattutto in seguito alle decisioni presidenziali successive che hanno esteso le misure straordinarie oltre il termine iniziale di un mese (24 agosto 2021), hanno conferito a Saied pieni poteri (decreto presidenziale n° 117 del 22 settembre 2021) e hanno annunciato la creazione di un nuovo governo guidato da Najla Bouden Romdhan (11 ottobre 2021).

Da quel momento il coro di critiche rivolte verso il neo-autoritarismo del Presidente è andato crescendo e le riserve sul suo operato in gran parte sciolte, anche da parte di quelle istituzioni, quali la potente UGTT (Union Générale Tunisienne du Travail), e di alcuni partiti che avevano inizialmente dato al Presidente Saied il beneficio del dubbio. La Tunisia è tornata così alle divisioni interne e al clima di tensione che avevano caratterizzato i primissimi anni della transizione democratica, e in particolare il 2013. Vero è che in Tunisia durante tutti gli ultimi dieci anni le proteste popolari non sono mai venute meno, segno di una più o meno latente situazione di malcontento a livello popolare e allo stesso tempo di un dinamismo della società civile che rappresenta una caratteristica fondamentale per comprendere il percorso tunisino dalla fine del regime di Ben Ali.

Mentre nella prima fase, fino al 2015 circa, le proteste popolari erano incentrate su questioni quali libertà, partecipazione, diritti civili e democrazia, negli ultimi cinque anni le questioni socio-economiche e la mancanza di reti di protezione contro la povertà, la marginalizzazione e il precariato per la maggior parte della popolazione sono divenute preponderanti.

Il banco di prova dell’economia

La situazione economica rappresenterà ancora una volta il banco di prova, questa volta per il Presidente Saied e per il suo tentativo di ridisegnare il volto del Paese a sua immagine e somiglianza. Gennaio è il mese in cui, tradizionalmente, l’approvazione della nuova legge di bilancio contenente – come ci si aspetta anche quest’anno – nuove misure di austerità offre l’occasione per nuove mobilitazioni di piazza. La situazione macro-economica e finanziaria è drammatica, ormai da anni, con un livello di debito esterno totale di più di 40 miliardi di dollari. Ma a preoccupare maggiormente la popolazione è il tasso di disoccupazione in crescita a quasi il 18 percento.

Sarà difficile per il Presidente far ricadere la responsabilità di tale situazione, fortemente aggravata dall’incidenza della pandemia, sul governo o su altre istituzioni alla luce del fatto che formalmente il potere resta accentrato nelle sue mani in seguito all’annuncio di un mese fa circa i prossimi passaggi della transizione. Il 13 dicembre scorso, infatti, il Presidente ha dichiarato che il Parlamento resterà sospeso fino alle prossime elezioni generali previste per il 17 dicembre 2022. Una tempistica molto allungata che crea ancora più incertezza e malcontento tra i tunisini che volevano risposte chiare circa il ritorno alla democrazia: in un anno può succedere di tutto. Anche il processo di revisione costituzionale, che dovrebbe concludersi con un referendum proprio il 25 luglio 2022, rischia di rappresentare più un rischio che un’opportunità.

Il campanello d’allarme dei diritti negati

In questo contesto, si aggiunge ora un nuovo fronte di preoccupazione, segnalato in questi giorni dalle Nazioni Unite, ovvero il rapido deterioramento del rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali soprattutto di personalità che si sono opposte al Presidente e alle misure recentemente intraprese. Si tratta del campanello d’allarme di una situazione che non si verificava fin dai tempi di Ben Ali. A farne le spese sono per il momento ufficiali del più grande partito del Paese, il partito islamista Ennahda, notoriamente in rotta di collisione con Saied. Tuttavia, tale situazione potrebbe determinare anche un aumento delle proteste popolari non solo nel nome delle difficoltà socio-economiche ma anche per la paura di una larga fetta della popolazione tunisina di aver perso la protezione e le garanzie contro abusi e soprusi di potere tanto faticosamente conquistate in oltre dieci anni di lotte.

Il 2022 sarà cruciale per il futuro del Paese: i tunisini ne sono consapevoli e chiedono che anche il resto del mondo, e in particolare i Paesi europei ai quali sta a cuore la continuazione del percorso di democratizzazione iniziato in Tunisia nel 2011, lo siano. Se non altro per una serie di interessi concreti – dal controllo delle migrazioni irregolari, al commercio e agli investimenti – che ci legano a doppio filo a Tunisi.

Foto di copertina EPA/MOHAMED MESSARA

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