A partire dalla conferenza nota come “COP26”, svoltasi nel 2021 a Glasgow, le Conferenze delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico hanno assunto una nuova centralità politica e mediatica. L’attenzione crescente della società civile e dei media è senza dubbio un segnale incoraggiante per l’azione climatica globale, ma porta con sé anche alcuni risvolti negativi: mentre le questioni più simboliche e politiche guadagnano visibilità – si pensi ai dibattiti sul phasing down, phasing out o transitioning away dai combustibili fossili – quelle sostanziali, di maggiore portata giuridica, tendono a passare in secondo piano.
Non bisogna dimenticare che le cosiddette COP sono innanzitutto il foro negoziale degli Stati parte dei tre trattati che costituiscono l’architettura giuridica del regime climatico internazionale: la Convenzione quadro del 1992, il Protocollo di Kyoto del 1997 e l’Accordo di Parigi del 2015. Le decisioni adottate nell’ambito delle conferenze diplomatiche servono ad attuarne le disposizioni e a orientarne lo sviluppo futuro.
Certo, negli ultimi anni non sono mancati progressi di un qualche rilievo giuridico, come l’istituzione del Fondo per perdite e danni, lo sviluppo degli approcci cooperativi previsti dall’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, e la recente decisione sull’obiettivo globale di finanza climatica, sebbene formulata in termini molto generici. È però rimasta in secondo piano la questione cruciale della mitigazione, cioè la riduzione effettiva delle emissioni di gas a effetto serra. Mentre l’attenzione politica in questo campo si concentra su obiettivi di lungo termine, molti Stati, e anche l’Unione europea, non rispettano le scadenze per l’aggiornamento delle proprie Nationally Determined Contributions (NDCs), strumento centrale dell’Accordo di Parigi, e gli impegni sinora assunti si rivelano insufficienti a contenere l’aumento della temperatura globale “ben al di sotto” dei 2°C, o, auspicabilmente, entro 1,5°C.
Perciò, alla vigilia della cosiddetta “COP30”, che si terrà a Belém (Brasile) dal 10 al 21 novembre 2025, ci sembra opportuno porsi la questione se e come riformare il negoziato internazionale sul clima. È vero che il contesto politico attuale appare tutt’altro che favorevole, tra conflitti armati in continua espansione e l’acuirsi di posizioni apertamente negazioniste in soggetti chiave come gli Stati Uniti di Donald Trump. Né il quadro multilaterale ambientale più ampio offre motivi di ottimismo. Tuttavia, le riforme richiedono tempi lunghi di elaborazione e maturazione: iniziare a discuterne oggi potrebbe non essere un esercizio utopistico, ma una tappa necessaria.
Questo articolo, pertanto, si concentra su due dimensioni di una possibile riforma del negoziato internazionale sul clima. La prima, di carattere procedurale, riguarda le modalità di conduzione dei lavori negoziali. La seconda, di tipo sostanziale, concerne invece l’ipotesi di elaborare un nuovo protocollo internazionale in materia di mitigazione del cambiamento climatico. Le conclusioni tenteranno di ricondurre a sintesi questi due aspetti.
Sul piano procedurale: come rendere il negoziato più rapido ed efficiente?
La diplomazia multilaterale procede, per sua natura, con tempi particolarmente dilatati; in particolare, il metodo del consenso nell’adozione delle decisioni costituisce un ostacolo evidente all’efficienza del processo negoziale. È interessante notare, tuttavia, che tale metodo non ha mai ricevuto una formale codificazione nel contesto del regime internazionale del cambiamento climatico. Le Rules of Procedure della Conferenza delle Parti della Convenzione quadro del 1992 non sono infatti mai state approvate in via definitiva. L’articolo 42 sul sistema di voto è rimasto in bozza e contempla due opzioni: la prima prevede il consenso come unico criterio per le decisioni sostanziali, la seconda introduce invece la possibilità, in caso di mancato accordo dopo aver compiuto ogni possibile sforzo in tal senso, di adottare una decisione a maggioranza qualificata dei due terzi delle delegazioni presenti e votanti. Il primo pilastro di una riforma procedurale dovrebbe dunque essere la previsione di decidere a maggioranza qualificata, superando così lo stallo strutturale insito nel sistema del consenso.
Un secondo aspetto riguarderebbe la possibilità di rendere il processo negoziale più snello e a cadenza più frequente, considerando che negli ultimi anni le COP si sono trasformate in eventi imponenti, altamente partecipati ma spesso dispersivi. Non mancano proposte di rilievo in questa direzione. Nel 2023, ad esempio, il Club of Rome ha diffuso una open letter – poi rilanciata nel 2024 – in cui raccomandava, tra l’altro, di trasformare le COP in “smaller, more frequent, solution-driven meetings”. Alcuni segnali di ricezione del messaggio sono già emersi: si pensi, ad esempio, alla significativa riduzione dei badge concessi a osservatori provenienti dal “Nord globale” nelle ultime due Conferenze, e all’iniziativa della Presidenza brasiliana che ha istituito i “COP30 Circles”, gruppi guidati da figure di rilievo in diversi ambiti chiave dell’azione climatica, con l’obiettivo di facilitare il negoziato e accelerare l’attuazione dei trattati. Tali iniziative, tuttavia, restano legate alla discrezionalità politica e all’iniziativa di singole presidenze, e rischiano di non incidere in modo strutturale sul regime.
Affinché la riforma sia effettiva, occorrerebbe attribuire una cornice giuridica a simili innovazioni procedurali. Dal punto di vista giuridico, le possibilità non mancano: le disposizioni relative alle conferenze delle Parti contenute nei tre trattati prevedono, tra l’altro, la possibilità di convocare sessioni straordinarie su richiesta di un terzo degli Stati membri e incoraggiano la creazione di organi ristretti incaricati di agevolare l’attuazione di specifiche disposizioni (si veda, ad esempio, l’articolo 7 della Convenzione quadro).
Certo, sessioni negoziali più ristrette e frequenti comportano il rischio di esclusione e di minore trasparenza del processo. Ma anche nel modello attuale, solo formalmente inclusivo, una trasparenza reale non è affatto garantita: le decisioni cruciali vengono spesso prese in incontri informali e limitati a un numero ridotto di Paesi economicamente rilevanti, o addirittura direttamente in altri consessi. È comunque essenziale che qualsiasi riforma resti conforme al principio della sovrana uguaglianza degli Stati e continui a garantire una partecipazione pubblica adeguata, attraverso “osservatori” provenienti da soggetti sufficientemente specializzati e rappresentativi della società civile.
Sul piano sostanziale: è (quasi) tempo di un nuovo ‘Protocollo’?
La Convenzione quadro risale al 1992. Già alla prima COP del 1995 si avviò il negoziato che condusse all’adozione del Protocollo di Kyoto nel 1997. Negli anni successivi, il processo si articolò su due binari: da un lato quello che sfociò nell’Emendamento di Doha del 2012, dall’altro quello – più noto – che portò all’Accordo di Parigi del 2015. A dieci anni da quest’ultimo, i tempi potrebbero essere maturi per avviare una riflessione sull’elaborazione di un nuovo protocollo.
Sul piano sostanziale, la priorità resta una riduzione significativa e mirata delle emissioni di gas serra nel periodo cruciale 2035–2050, così da rendere effettivo l’obiettivo della neutralità climatica al 2050, già affermato a livello internazionale. Un nuovo protocollo dovrebbe dunque concentrarsi su questo arco temporale, con negoziati formali da avviare entro il 2030 e l’adozione e una rapida entrata in vigore entro il 2035.
Un simile strumento potrebbe rappresentare una sintesi tra l’approccio “top-down” di Kyoto e quello “bottom-up” di Parigi. Da un lato, fisserebbe l’obiettivo globale di neutralità climatica al 2050; dall’altro, consentirebbe contributi differenziati, con un gruppo di Paesi più avanzati e meno inquinanti chiamati a raggiungere prima il net-zero, e i grandi emettitori con minore capacità tecnologica a seguire in tempi successivi. Inoltre, il protocollo potrebbe contenere disposizioni più tecniche sulla riduzione delle emissioni nei settori chiave, disciplinare l’uso delle metodologie di carbon removal e allegare tabelle con margini di riduzione delle emissioni per ciascuna Parte, calcolati sulla base del rispettivo carbon budget e delle capacità economiche. Ciò offrirebbe anche l’occasione per rivedere l’ormai superata distinzione tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo introdotta dalla Convenzione quadro.
Il nuovo protocollo non sostituirebbe l’Accordo di Parigi, che resterebbe in vigore, come peraltro sono ancora la Convenzione quadro e il Protocollo di Kyoto. Al contrario, si innesterebbe sul regime esistente, potendo far leva su strumenti già esistenti come gli NDCs – il cui attuale aggiornamento ha come orizzonte temporale proprio il 2035 – ma collocandoli in una cornice più vincolante e stringente. La finanza climatica rimarrebbe un elemento imprescindibile per sostenere gli sforzi di mitigazione dei Paesi in via di sviluppo, con la prospettiva, tuttavia, di includere tra i contributori netti anche soggetti come la Cina – una questione destinata comunque a imporsi sul negoziato multilaterale nel prossimo futuro.
Il tempo delle riforme è adesso
Le due dimensioni di riforma proposte potrebbero sembrare, a prima vista, contraddittorie. Chi invoca un negoziato più snello parte infatti dall’urgenza di attuare l’Accordo di Parigi in una prospettiva di “delivery”, che sembrerebbe non lasciare spazio all’elaborazione di un nuovo protocollo. Tuttavia, quest’ultimo non sostituirebbe l’Accordo di Parigi: al contrario, si baserebbe sull’attuazione efficace di molte delle sue disposizioni, che rimarrebbe prioritaria. Inoltre, lo stesso Protocollo potrebbe al contempo fungere da volano per introdurre alcune innovazioni procedurali. Si pensi, appunto, a riunioni degli Stati parte più ristrette e distribuite durante l’anno presso il Segretariato di Bonn, in luogo delle attuali conferenze annuali, o a un nuovo meccanismo di compliance dotato non solo di funzioni facilitanti ma anche di poteri sanzionatori, in grado di ridurre l’attuale deficit di accountability.
È evidente che le incognite non mancano, ma lo scenario politico internazionale potrebbe mutare più rapidamente del previsto. Quando ciò accadrà, aver già concettualizzato le riforme necessarie potrà fare la differenza. Alcuni Stati virtuosi – e l’Unione europea in particolare – potrebbero farsi promotori di tali innovazioni; se queste si rivelassero efficaci, altri Stati potrebbero accodarsi. In un contesto globale sempre più segnato da cambiamenti repentini e inattesi, un approccio di lungimiranza resta essenziale per evitare di farsi cogliere impreparati.
Riccardo Luporini è ricercatore in diritto internazionale presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

