Il nuovo regolamento sui rimpatri: come l’Ue sta ridisegnando la governance di migrazione e asilo

La presentazione della nuova proposta di regolamento dell’Unione Europea sui rimpatri lo scorso 10 marzo ha finalmente riportato al centro del dibattito sulla governance europea in tema di migrazione l’ultimo tassello mancante di un Patto sulla Migrazione e l’Asilo rimasto fino ad allora incompleto.

A questa data è anche corrisposto il ritiro ufficiale e definitivo della precedente proposta di recast della direttiva sui rimpatri (la 2008/115/EC), avanzata nel 2018 con l’obiettivo – mai raggiunto – di integrarla nel Patto. Bloccata dall’impasse tra Parlamento e Consiglio Europeo, quella proposta era rimasta impantanata per anni, testimonianza di quanto fosse difficile trovare una sintesi politica su un tema tanto delicato.

L’esternalizzazione al centro della strategia europea

Nonostante l’assenza fino ad oggi di uno strumento normativo aggiornato in materia di rimpatri, era già evidente da tempo l’indirizzo politico assunto dalla Commissione: spostare la gestione dei flussi migratori sempre più verso l’esterno dei confini dell’Unione. Lo dimostrano non solo la creazione della figura dell’EU Return Coordinator — oggi Mari Juritsch — istituzionalizzata nel quadro del Patto, ma anche l’atteggiamento ambiguo dell’Esecutivo nei confronti di modelli controversi come quello italiano in Albania.

A dispetto delle critiche sollevate da organizzazioni per i diritti umani e della natura evidentemente extraterritoriale dell’accordo Roma-Tirana, né la precedente commissaria Johansson né il suo successore Brunner si sono espressi apertamente contro il cosiddetto “modello Albania”. Anzi, si è insistito su una formula ambigua: l’accordo non viola il diritto UE semplicemente perché “ne è al di fuori”. Una posizione che, sebbene formalmente neutra, ha finito per legittimare di fatto sperimentazioni di esternalizzazione tramite un modello ibrido prive di una cornice giuridica europea chiara.

Memorandum e soft law: l’ombra lunga dei rimpatri informali

È proprio su questo “modello” basato su strumenti di soft law come il Memorandum of Understanding (MoU) che i 27 stati membri faranno forse le loro fortune in materia di rimpatri. Uno strumento che rimane fuori dalla partecipazione democratica del Parlamento Europeo e parzialmente escluso dal controllo giuridico della Corte di Giustizia UE. Strumenti opachi che, nella pratica, rischiano di produrre effetti devastanti per i diritti umani di chi cerca protezione sul territorio europeo.

La nuova proposta di regolamento non solo non argina questa tendenza, ma la incentiva apertamente. Concede agli Stati membri ampi margini di manovra per concludere accordi bilaterali volti all’istituzione di “return hubs” situati al di fuori dei confini europei, anche in Paesi che non hanno alcun legame con le persone da rimpatriare. Questo significa che cittadini di Paesi terzi potrebbero essere deportati in luoghi con cui non condividono lingua, cultura, né un pregresso legame giuridico. Luoghi che rischiano di trasformarsi in veri e propri “buchi neri” di tutela legale.

Il definitivo sdoganamento dei rimpatri all’interno del Patto

L’intento di rendere i rimpatri una priorità operativa è confermato dalla recente proposta della Commissione, datata 16 aprile, di anticipare l’applicazione di due importanti norme del Patto già prima che lo stesso entri in vigore nel giugno del 2026, al termine del suo periodo di implementazione. Si tratta di:

  • la possibilità di applicare procedure di frontiera e accelerate ai richiedenti asilo provenienti da Paesi con un tasso medio di riconoscimento inferiore al 20%;
  • la definizione flessibile di “Paese terzo sicuro” e “Paese di origine sicuro”, con la facoltà per gli Stati membri di escludere singole regioni o categorie di individui.

Nel contempo, la Commissione ha proposto una prima lista comune UE di Paesi di origine sicuri comprendente Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Marocco e Tunisia — tutti Paesi in cui il tasso di riconoscimento delle richieste d’asilo in Europa si attesta sotto il 5%. È una mossa che favorisce Paesi come l’Italia, che ha già incluso Egitto e Bangladesh nella propria lista nazionale per agevolare il trasferimento di migranti in Albania.

Qualora la proposta venisse approvata dal Consiglio e dal Parlamento europeo, la lista UE diventerebbe vincolante, ma allo stesso tempo non impedirebbe ai Paesi membri di stilare liste più numerose (quella italiana conta già 19 Paesi). Gli Stati membri sarebbero quindi tenuti ad effettuare procedure accelerate o di frontiera per tutti i cittadini provenienti dagli Stati indicati da Bruxelles. Le richieste d’asilo verrebbero valutate in un periodo massimo di tre mesi, anziché sei, e le persone migranti trattenute per tutto il periodo della procedura.

Infine, si stanno considerando i paesi candidati all’UE come idonei ad essere designati come paesi di origine sicuri poiché, in teoria**,** stanno lavorando per raggiungere la stabilità delle istituzioni che garantiscono la democrazia, lo stato di diritto, i diritti umani e il rispetto e la protezione delle minoranze.

Non tutto è perduto

Tutto questo avviene mentre l’UE prosegue nel solco di una governance che si allontana dal principio di armonizzazione, pur utilizzando formalmente strumenti come il regolamento (anziché la direttiva) per dare un’apparenza di uniformità. La verità è che gli Stati membri stanno ottenendo spazi di manovra sempre più ampi mentre alcuni di loro — come la Polonia — si rifiutano perfino di implementare il Patto: potranno siglare accordi bilaterali, ampliare le proprie liste di Paesi terzi sicuri, applicare norme differenziate in funzione di contesti e interessi nazionali.

Eppure, in questo quadro tutt’altro che rassicurante, un segnale positivo è arrivato dalla Corte di Giustizia UE. Lo scorso aprile, l’Avvocato generale Richard de la Tour ha affermato che la sola designazione legislativa di un Paese come “sicuro” non può bastare: deve essere accompagnata da un controllo giurisdizionale approfondito, che verifichi anche la solidità delle fonti su cui si fonda tale valutazione. Una posizione che potrebbe porre un argine alla diffusione indiscriminata di liste di Paesi sicuri, riportando il principio di legalità al centro della politica migratoria europea e ponendo un impedimento parziale alla diffusione di rimpatri spregiudicati che contribuirebbero a creare ulteriori discrepanze nei meccanismi dei singoli Stati europei.

Un Patto a rischio squilibrio

Se l’obiettivo è mantenere in vita un sistema europeo comune d’asilo, il Patto non può essere sacrificato sull’altare dei rimpatri e dell’esternalizzazione. L’architettura europea del diritto d’asilo rischia di essere erosa proprio dall’interno, dalle deroghe e dalle eccezioni che gli Stati membri — con il tacito assenso della Commissione, o nonostante le minacce di provvedimenti poco convincenti — stanno moltiplicando.

A questo punto è lecito chiedersi: che senso ha impegnare risorse, personale e tempo per costruire un sistema comune, se l’orientamento dominante è quello della detenzione sistematica, della velocizzazione a scapito delle garanzie, e della delega a Paesi terzi?

La risposta a questa domanda definirà non solo il futuro del Patto, ma anche quello dei valori su cui si fonda l’Unione Europea e il suo sistema d’asilo.

Ultime pubblicazioni