Di fronte allo zoppicante processo di stabilizzazione in Medio Oriente si è spesso citato l’esempio della pace in Nord Irlanda, siglata nel 1998 dopo trent’anni di guerra civile. Con tutte le differenze del caso, quello irlandese può essere un modello virtuoso per indicare i pilastri di un vero processo di pace: dal disarmo delle fazioni militari all’amnistia per capi e gregari, dal coinvolgimento di tutte le parti nel negoziato ad istituzioni locali autonome inclusive. Una pace che tra alti e bassi regge dall’accordo del Venerdì Santo di 27 anni fa. Non a caso anche per il futuro di Gaza spunta l’uomo che da Premier britannico firmò quegli accordi: Tony Blair. L’ex Premier nel frattempo è stato coinvolto in Medio Oriente prima come inviato speciale del Quartetto (ONU, EU, Stati Uniti e Russia), poi per lucrosi progetti con i Paesi del Golfo sottoscritti dal suo “Institute for Global Change”. Blair il pacificatore ma anche Blair l’aggressore dell’Iraq di Saddam Hussein assieme a George W. Bush nel 2003. Una figura controversa.
Per capire questi passaggi e se la presenza di Blair tra i futuri amministratori di un per ora ipotetico governo di transizione a Gaza sia di beneficio o controproducente abbiamo interpellato due testimoni d’eccezione: Chris Patten e Peter Ricketts.
“Come nel processo di pace in Nord Irlanda, anche in Medio Oriente comincia adesso la fase più difficile: tenere a bada le frange estreme e costringerle a rispettare i termini dell’accordo. Coloni e destra religiosa israeliana da una parte, residui di Hamas e gruppuscoli radicali palestinesi dall’altra. C’è un unico modo: dimostrare che la pace è concreta e si sta consolidando.”
Ministro con Margaret Thatcher, ultimo Governatore di Hong Kong, Lord Patten nelle sue molte vite è stato anche mediatore in Nord Irlanda, nominato proprio dall’allora governo Blair nell’organismo che sviluppò l’accordo di pace. In seguito, come Commissario europeo per i rapporti internazionali, è stato direttamente coinvolto nell’applicazione degli accordi di Oslo tra Israele e Palestinesi.
“Ho incontrato molte volte Arafat, visitato Gaza e la Cisgiordania per monitorare i finanziamenti europei all’Autorità palestinese e all’Agenzia ONU per i rifugiati – ricorda Chris Patten – Era un periodo di speranza per il Medio Oriente, costruito sul sacrificio di Rabin (assassinato poco dopo) e sulla prospettiva concreta di due popoli, due Stati.”
Poi la seconda Intifada e la reazione israeliana riportarono tutto allo scontro diretto.
Eppure, l’esempio nordirlandese aiuta ad avere fiducia. Uno dei più sanguinosi attentati della guerra civile in Ulster, Omagh 1998, 29 morti e oltre 200 feriti, avvenne non prima ma dopo la sigla dell’accordo di pace. Eppure non lo bloccò, non si tornò alle reciproche violenze e vendette.
“Se la volontà politica è determinata si superano anche gli ostacoli e gli incidenti su un percorso necessariamente accidentato – dice Patten – In Medio Oriente si deve ridare fiducia ai Palestinesi, devastati dai massacri di questi due anni, dimostrando che a Gaza e anche in Cisgiordania si costruisce un futuro di distensione. Agli Israeliani, colpiti dall’eccidio del 7 ottobre, va data la certezza di essere al sicuro da attacchi terroristici.”
Gli fa eco Peter Ricketts, diplomatico di lungo corso, rappresentante britannico alla NATO, Consigliere per la sicurezza nazionale nel primo governo Cameron e soprattutto in precedenza a capo del “Joint Intelligence Committee” durante i governi di Tony Blair.
“Anche allora la mediazione americana fu cruciale – racconta – Al negoziato in Nord Irlanda partecipò l’inviato di Clinton, senatore George Mitchell, che fu tra i firmatari dell’accordo del 1998. Lo stesso sta avvenendo per Gaza. Il cessate il fuoco è frutto dell’intervento diretto di Trump che si è speso personalmente con Netanyahu. Sono i suoi mediatori, a cominciare dal segretario di Stato Rubio, a mantenere ora la pressione su Israele per evitare la rottura della tregua, nonostante prevedibili violazioni del cessate il fuoco. L’altra novità – prosegue – è il coinvolgimento dei Paesi arabi, compresi quelli del Golfo. Dall’Egitto, che teme un arrivo in massa di profughi palestinesi se non si stabilizza la Striscia, all’Arabia Saudita, Emirati, Qatar e Oman che saranno coinvolti nella sicurezza e forza araba di interposizione. Tutti sono stati protagonisti delle trattative per arrivare al piano americano, che rispecchia in gran parte quello messo a punto da mesi proprio dagli arabi.”
Un piano dove evidente è anche la mano di Blair, invitato direttamente alla Casa Bianca per discuterne. Di fronte al suo nome però non solo Hamas ha posto il veto ma si sono levate anche molte altre voci critiche, soprattutto da Paesi arabi.
“La gente non dimentica la sua avventura irachena – commenta Patten – Anch’io ho sempre considerato l’attacco a Saddam Hussein un grave errore, che ha destabilizzato ancora di più il Medio Oriente e indebolito il ruolo delle Nazioni Unite. Blair però, almeno all’apparenza, non la pensa così: ha sempre difeso la sua scelta. In ogni caso dopo avere lasciato Downing Street tra il 2007 e il 2015 Blair ha fatto esperienza sul campo. Come inviato per il Medio Oriente del Quartetto non ha potuto fare molto ma ha costruito una rete di rapporti nell’intera area. È un politico di lungo corso, esperto e astuto; se si arriverà alla prossima fase di ricostruzione potrà dare un contributo importante. Ha la fiducia sia dell’amministrazione Trump sia dei Paesi arabi del Golfo e dell’Egitto. Non è poco.”
Forse anche per fare ammenda di quell’errore storico, che lascia una macchia profonda sulla sua eredità di statista, Blair ha voluto occuparsi sempre più di Medio Oriente.
Per Peter Ricketts anzi il ricordo dell’Iraq può essere utile per il dopo tregua a Gaza.
“Nel 2003 non solo la scelta di rimuovere Saddam Hussein fu controversa – ricorda il diplomatico – Un disastro fu soprattutto la politica del dopoguerra. L’autorità provvisoria guidata a gestire la transizione per ordine dell’inviato americano Paul Bremer azzerò la leadership del partito Baath e smantellò l’esercito iracheno, creando le condizioni per una crescente instabilità che dura tuttora. Blair ha fatto tesoro di quella esperienza. Cercherà di evitare gli stessi errori, lo si vede chiaramente in molti tratti del piano di pace in venti punti. Soprattutto dove si insiste che il disarmo debba essere accompagnato da un più ampio coinvolgimento di tutte le fazioni, in direzione di una autorità palestinese autodeterminata. Capisco che il nome Blair evochi scenari passati, ma se si vuole una figura esperta, che gode della fiducia dell’amministrazione americana e delle élite arabe, allora lui è un buon candidato.”
Marco Varvello è un giornalista con trentennale esperienza da inviato, editorialista e corrispondente dall’estero. Vive e lavora a Londra.



