Emmanuel Macron ha annunciato che a settembre la Francia riconoscerà ufficialmente la Palestina. La Francia si trova così nella buona compagnia di altri 147 Paesi, fra cui diversi europei. L’annuncio ha tuttavia suscitato in Occidente diffusa perplessità e non poche critiche; in parte perché si tratta della prima decisione di questo genere da parte di un paese europeo membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Le critiche sono però state numerose anche sul piano interno e questo forse riflette l’elevato livello attuale di impopolarità del Presidente; riflette soprattutto la difficoltà che la questione palestinese incontra in un paese dove risiede allo stesso tempo la più grande comunità ebraica d’Europa e una delle più grandi comunità musulmane, i cui rapporti sono peraltro sempre più difficili. La questione merita però un esame più spassionato.
Prima di tutto sulla forma. Macron è stato infatti criticato aspramente, dal governo israeliano ma non solo, per non aver legato la sua decisione alla fine delle ostilità, alla resa di Hamas e alla liberazione di tutti gli ostaggi. Si tratterebbe in sostanza di un implicito riconoscimento della legittimità di Hamas. A ben vedere però questo è un processo ingiustificato. La sua posizione sui crimini di Hamas, sul diritto di Israele all’esistenza e all’autodifesa e anche sulla liberazione degli ostaggi è infatti sempre stata chiara e impeccabile. Forse avrebbe fatto bene a ripetere tutto nello stesso contesto, ma la critica sembra francamente forzata. Del resto, il ministro degli Esteri si è subito affrettato a precisare la posizione complessiva della Francia. Né vale molto la critica di aver rotto l’unità dell’Europa, dal momento che già diversi altri paesi europei avevano compiuto lo stesso passo senza provocare reazioni così accese. Questo per la forma. Ma la sostanza?
Se c’è una costante nella posizione europea e fino a poco tempo fa anche americana sulla questione palestinese, è sempre stata quella di indicare la soluzione dei “due popoli, due stati” come l’unico sbocco possibile. Non è questa la sede per ricordare le spesso tragiche vicissitudini della questione, le speranze deluse e soprattutto le responsabilità largamente condivise fra tutti i principali attori. Tuttavia, il riconoscimento formale della Palestina non si era mai posto in passato con la stessa drammaticità. Cosa è cambiato? Tre cose e non di poco conto. La prima è che l’attuale governo israeliano non solo nega apertamente il principio della prospettiva dei due stati, ma sembra sempre più evidente che l’obiettivo della sua azione a Gaza e in Cisgiordania è quello di renderla di fatto impossibile. Con quale prospettiva? Netanyahu non si pronuncia, limitandosi ad affermare la necessità di debellare completamente Hamas, ma non è illogico pensare che il vero obiettivo sia l’annessione con conseguente parziale o totale espulsione della popolazione palestinese. Altri membri del governo sono più espliciti. Netanyahu sembra del resto anche aver del tutto abbandonato la disponibilità di Israele che esisteva nelle crisi passate ad ascoltare i suoi alleati, a cominciare da quello più importante, gli Stati Uniti. Sembra quasi che egli sia convinto di poter manipolare Trump a suo piacimento; una convinzione che potrebbe rivelarsi pericolosamente illusoria. La seconda novità è che, sia pure con le imprevedibilità proprie di Trump, la prospettiva dei due stati sembra essere stata abbandonata dalla politica americana. La terza novità è la quasi scomparsa dell’Autorità Palestinese come interlocutore credibile, che lascia sul terreno Hamas come unico attore visibile. Ciò non giustifica l’affermazione che dunque “tutti i palestinesi” vogliono la scomparsa di Israele, ma toglie concretezza alla prospettiva di uno stato palestinese. In queste condizioni, non sorprende che gli europei, ancora fedeli all’ipotesi dei due stati, debbano confrontarsi in modo più serrato con il problema del riconoscimento formale. Tutti i governi sono infatti sottoposti a una crescente pressione dell’opinione pubblica, a causa dello stallo politico già descritto, ma soprattutto della drammatica situazione umanitaria a Gaza. Situazione di cui è impossibile negare la tragica realtà, anche scontando una dose di disinformazione da parte di Hamas.
Tuttavia, nella situazione attuale il riconoscimento può avere solo un senso simbolico a causa della già ricordata assenza di un interlocutore credibile che dovrebbe essere la necessaria incarnazione della sovranità di questo nuovo stato. Il riconoscimento formale della Palestina soddisfa quindi un comprensibile bisogno etico, ma qual è la sua giustificazione politica? Il principale argomento a favore è quello secondo cui così si aumenta la pressione internazionale su Israele. Ciò è sicuramente vero, ma non si può negare il pericolo che il riconoscimento della Palestina conduca a una qualche forma di riconoscimento implicito per entità palestinesi che non vorremmo legittimare.
È del resto improbabile che questa mossa possa avere un effetto reale sulla politica di Israele e in un tempo ragionevolmente breve. Resta quindi l’aspetto etico e simbolico, accompagnato dal desiderio degli europei di uscire dalla situazione di marginalità in cui si trovano. Moltiplicare le iniziative di aiuto umanitario, per quanto utile, non fa che accrescere il sentimento di impotenza. Questo desiderio di “esistere”, se è comprensibile, è anche pericoloso. Sul piano internazionale, rischia di farci solo apparire velleitari e di sembrare un cedimento all’accusa di doppiezza nello scarso sostegno alla causa palestinese rispetto all’appoggio incondizionato all’Ucraina. Accusa doppiamente inaccettabile e che dobbiamo invece respingere. Essa proviene da paesi che brandiscono l’etica come pretesto per nascondere una precisa posizione politica: il disinteresse per la sovranità dell’Ucraina e l’accettazione implicita della tesi aberrante di Israele come prodotto del colonialismo europeo. Sul piano interno, la mancanza di risultati concreti può invece avere l’effetto opposto a quello che probabilmente ricerca Macron; potrebbe infatti radicalizzare ulteriormente l’opinione pubblica e incentivare il già crescente antisemitismo. Ciò spiega probabilmente in parte la reticenza di governi come quello tedesco, britannico o italiano. L’Europa farebbe invece bene a spiegare con chiarezza alla sua opinione pubblica che i suoi mezzi reali per influire sulla situazione sono obiettivamente limitati. La brutalità con cui Trump ha affermato che Macron “è un bravo ragazzo, ma quello che fa non cambia nulla”, riflette la volgarità del personaggio, ma non manca di realismo.
Il futuro del conflitto israelo-palestinese, oltre che dall’evoluzione della situazione interna a Israele, dipende infatti da due fattori. Il primo è costituito dagli Stati Uniti, il paese che rappresenta il vero garante della sicurezza di Israele. Il secondo è invece costituito dai principali paesi arabi, i soli che possono rilanciare su basi nuove gli accordi di Abramo, garantire la neutralizzazione di Hamas, assumersi la responsabilità del governo di Gaza in condizioni accettabili per Israele e favorire l’emergere di un credibile interlocutore palestinese; tutte condizioni indispensabili per ridare credibilità alla prospettiva dei due stati. Netanyahu sembra al momento dare per scontata l’inerzia o persino l’incapacità degli arabi. Dal punto di vista europeo, invece, e di fronte al cambiamento della posizione americana, l’unica speranza di mantenere in vita l’ipotesi dei due stati è quella di appoggiarsi su un’iniziativa araba; una prospettiva che possiamo appoggiare, ma non suscitare. È forse proprio questa l’ottica che dà senso all’iniziativa di Macron, il quale ha proposto una conferenza internazionale sul futuro della Palestina, co-presieduta con l’Arabia Saudita. Quello in realtà sarebbe il contesto giusto per porre la questione del riconoscimento dello stato palestinese, ma a condizione che sia accompagnato da una credibile iniziativa araba.
Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore, fra l'altro, dei volumi 'L'Unione europea: una storia non ufficiale' e 'Stare in Europa: Sogno, incubo e realtà'