Israele-Palestina: la distanza tra opinione pubblica occidentale e politica

Uno dei fenomeni che hanno accompagnato i tragici avvenimenti del 7 ottobre in Israele, è stata la distanza che osserviamo fra le posizioni assunte dai governi – ma anche da molte forze di opposizione – e quelle dell’opinione pubblica, soprattutto della sua parte detta progressista. Dai due lati dell’Atlantico viviamo in società pronte a far scendere in piazza migliaia di persone per manifestare in favore di ogni minoranza che per una qualsiasi ragione si può considerare oppressa. Del resto, nella maggior parte dei casi questa reazione può essere considerata pienamente giustificata. In tempi recenti, fra le ragioni di manifestare abbiamo avuto ME2, Black Lives Matter, anche se in misura minore l’aggressione russa all’Ucraina. Se non si scende in piazza, si espongono bandiere, si organizzano catene di solidarietà, si firmano petizioni, si mobilitano interi corpi accademici.

Anche se i sondaggi disponibili indicano una generica simpatia per la sofferenza dei civili israeliani, quanto successo il 7 ottobre non ha provocato alcuna esplosione di solidarietà paragonabile a quelle menzionate sopra. Eppure la brutalità e la ferocia dell’aggressione contro civili inermi non ha paragone nella storia recente. Non s’è nemmeno trattato di “danni collaterali” cinicamente accettati in un’operazione militare, ma un atto deliberato rivolto alla popolazione civile. In parte dei media, anche quelli più accreditati, si è notata una reticenza che non è abituale in vicende simili. Ne sono prove il pervicace rifiuto di un’istituzione come la BBC di qualificare di “terrorista” l’azione di Hamas o la fretta con cui è stata largamente sposata la tesi della responsabilità di Israele nella tragedia dell’ospedale di Gaza; ciò anche dopo che si sono accumulati indizi sia pure non definitivamente conclusivi in favore della versione israeliana.

Il nuovo antisemitismo “decolonizzatore”

Nelle università americane si è assistito a un vasto movimento, appena debolmente contrastato dalle autorità accademiche, tendente a rifiutare all’azione di Hamas la qualifica di terrorismo e a ricondurre l’avvenimento sostanzialmente a una conseguenza della politica di Israele nei confronti della questione palestinese. I quartieri delle città abituati a infiammarsi in tutte le occasioni precedenti sono rimasti silenziosi. Si sono però prontamente riempiti di manifestanti non appena la reazione israeliana ha cominciato a provocare vittime civili fra la popolazione di Gaza. Lo stesso è successo in molti paesi europei, al punto che dopo le prime violenze, i primi fenomeni di terrorismo e la moltiplicazione di atti antisemiti, Francia e Germania mosse da forti preoccupazioni di ordine pubblico hanno tentato di imporre limiti alle manifestazioni di sostegno alla causa palestinese. Uno dei canti più popolari, in occidente come nei paesi arabi, è “From the river to the sea, Palestine will be free”; dove il fiume citato è il Giordano. Basta un fuggevole sguardo alla mappa, per capire che la conseguenza ne sarebbe la sparizione di Israele. 

Molte università europee si sono distinte nello stesso senso di quelle americane. Per non parlare delle numerose petizioni firmate dagli intellettuali di turno. Molti edifici pubblici sono stati illuminati ai colori di Israele, ma le bandiere israeliane sono praticamente assenti nel resto delle città. Ovunque la sinistra è lacerata. In Francia in maniera eclatante, con la frattura forse insanabile della NUPES, ma anche nel partito laburista britannico dove frange consistenti non sopportano la posizione decisamente pro israeliana assunta dal segretario Keir Starmer e da tutta la dirigenza del partito.

Il filo conduttore è in fondo unico. Anche se si ammette che provocare vittime civili israeliane è un’azione umanamente condannabile, ciò che avviene deve essere analizzato principalmente attraverso il prisma di una “azione di decolonizzazione”. In altri termini il conflitto israelo-palestinese non è altro che un episodio del vasto movimento di decolonizzazione attraverso il quale il resto del mondo punisce l’occidente per i crimini che ha commesso. Questo paradigma interpretativo diventa così l’unico angolo da cui valutare qualsiasi avvenimento, qualsiasi crisi economica o sociale. In fondo cosa sono gli israeliani se non degli europei bianchi, maestri di capitalismo e dediti allo sfruttamento di palestinesi, che invece appartengono al “sud oppresso”? Che tutta ciò sia in grottesca contraddizione perfino con i lunghi legami storici ed etnici che legano i due popoli, nonché con la struttura straordinariamente composita della società israeliana, non ha del resto nessuna importanza. Da qualche parte nelle viscere delle nostre società il nuovo antisemitismo “decolonizzatore” si salda con le scorie di quello antico, mai completamente scomparso.

Non c’è bisogno di collocarsi politicamente a sinistra per criticare aspramente la politica dei recenti governi israeliani e soprattutto quelli presieduti da Netanyahu. Del resto l’attuale stato di Israele è molto lontano da quell’esperimento di democrazia socialista che era nei sogni dei sionisti che lo concepirono e che non solo lo avvicinò al cuore della sinistra occidentale, ma suscitò iniziali simpatie anche nell’URSS. È anche innegabile che è a volte difficile per europei e americani navigare fra la necessità di trattare Israele come “uno stato normale”, con i suoi legittimi interessi ma anche con i suoi errori, e l’incancellabile debito che abbiamo come occidentali nei confronti di chi ha subito per mano nostra uno dei più immani crimini della storia.

Dove la frattura che attraversa la sinistra occidentale diventa dirompente è quando di fatto non si mette in discussione Israele per ciò che fa, ma per ciò che è. Lo sgomento delle nostre comunità ebraiche non deve quindi sorprendere. In Europa, sgomento visibile soprattutto in Francia che ospita quella di gran lunga più numerosa. Sgomento importante però anche in America dove la comunità ebraica vota storicamente per il partito democratico e si considera parte integrante della parte progressista del paese. Una comunità che in larga parte ha criticato la politica del governo israeliano e appoggiato la creazione di uno stato palestinese.

L’azione dei governi occidentali

Se questa è la non esaltante situazione a livello dell’opinione pubblica occidentale, il contrasto con la concreta azione dei governi non potrebbe essere più sorprendente. Negli Stati Uniti, democrazia notoriamente affetta da una disfunzione istituzionale ai limiti della paralisi, Biden ha potuto recarsi in Israele nel pieno della sua autorità e forte di un consenso fondamentalmente “bi-partisan”. Al punto che si appresta a usare il forte consenso di appoggio a Israele in seno al Congresso, per far adottare anche i più controversi aiuti all’Ucraina.

In Europa l’iniziale cacofonia in seno alle istituzioni, ampiamente riportata dai media, è durata lo spazio di un paio di giorni. In realtà lo spazio mediatico che ha meritato è probabilmente meno dovuto a questioni di fondo, che alla abituale gelosia interistituzionale che rappresenta uno degli aspetti meno nobili dell’Ue. Il grave difetto di Ursula von der Leyen non è stato ciò che ha detto o non ha detto nel suo viaggio in Israele, ma il fatto di esserci andata prima di altri e senza averne richiesto l’autorizzazione preventiva. Del resto da Scholz, a Sunak, presumibilmente presto a Macron, il suo viaggio è stato seguito da altri. Ciò che conta è che tutti sono sostanzialmente portatori dello stesso messaggio, peraltro molto simile a quello di Biden: appoggio a Israele e al suo diritto a difendersi, pressione perché si tenga conto della situazione umanitaria a Gaza, sforzo di coinvolgere i paesi arabi vicini per una soluzione della crisi, volontà di evitare che la crisi si allarghi. Il tutto con la coscienza di quanto la situazione sia fragile, tenendo conto delle opportunità, tutte difficili e tutte rischiose, che si offrono alla risposta israeliana.

Cosa ancora più significativa, questa larga convergenza dei governi è ovunque espressione di una convergenza delle forze parlamentari. È vero negli USA. È ovviamente vero anche in Germania, ma ciò era prevedibile: il Paese è vaccinato. È vero in Francia, malgrado la rottura della NUPES. È vero nel Regno Unito dove Starmer ha usato termini molto simili a quelli del suo antagonista conservatore, ha sopportato senza fiatare la defezione di numerosi eletti locali del suo partito, ma ciò non gli ha impedito di vincere in maniera clamorosa due elezioni suppletive in seggi tradizionalmente appannaggio del partito conservatore. È vero in Italia dove Giorgia Meloni e Elly Schleyn, le due signore della politica italiana, hanno detto cose molto simili. Salvo poi arrivare ad approvare in Parlamento con voti incrociati quattro mozioni separate ma non molto diverse: un bel esempio di bizantinismo parlamentare. Ciò che colpisce è che nessuno di questi governi che hanno assunto senza esitare posizioni non necessariamente in linea con quelle di una larga parte dell’elettorato, corre un vero rischio elettorale a causa della posizione assunta in seguito all’eccidio del 7 ottobre.

Forse tutto ciò ci dovrebbe spingere a una riflessione più ampia sul funzionamento delle nostre democrazie. I governi e le forze parlamentari di cui si è parlato hanno potuto agire così grazie alle leggi che regolano le democrazie rappresentative e che attribuiscono agli eletti il diritto di interpretare in modo ampio il proprio mandato di promozione del bene comune. Immaginiamo un istante cosa sarebbe successo se avessero dovuto subire i vincoli della “democrazia partecipativa”. In altri termini se avessero dovuto consultare preventivamente una “assemblea di cittadini scelti a caso” o se avessero dovuto procedere a un referendum online.

Colpisce anche la differenza paradossale che emerge con i regimi, tutti i qualche modo dittatoriali, dei paesi arabi che circondano Israele. Mentre le nostre leadership democratiche, che dipendono concretamente dal sostegno popolare dimostrano di essere capaci di guidare e non subire l’opinione pubblica, le dittature arabe sembrano invece prigioniere delle loro piazze. Ne è la prova il fallimento della conferenza del Cairo. Se noi siamo obiettivamente in difficoltà ma tentiamo di muoverci, loro sono paralizzati. Con buona pace di chi dice che le dittature decidono più facilmente delle democrazie. 

Foto di copertina EPA/ERIK S. LESSER

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