Con l’imposizione di innumerevoli e pesanti dazi doganali, Donald Trump ha ufficialmente avviato una guerra commerciale contro vari Stati del mondo, inclusi quelli europei. Dapprima l’amministrazione statunitense ha preso di mira le importazioni di alluminio e acciaio con una tariffa del 25%; è stato poi il turno delle automobili, colpite da un dazio di egual valore. Quindi, il 2 aprile, nell’annunciare tariffe verso una moltitudine di Paesi, è stato imposto un dazio del 20% su ogni bene importato dall’Unione europea, in nome di un presunto principio di reciprocità. Subiti questi colpi, l’Ue si interroga ora su come reagire, valutando l’efficacia e l’impatto di diverse opzioni.
Il 12 marzo la Commissione Europea, in risposta ai dazi su alluminio e acciaio, aveva annunciato la riattivazione di alcune contromisure assunte durante la prima presidenza del tycoon (poi sospese sotto Biden) e messo in cantiere l’aumento delle tariffe sull’importazioni di altre merci americane. Questo pacchetto di provvedimenti sarebbe dovuto entrare in vigore fra l’inizio e la metà di aprile; tuttavia, l’esecutivo euro-unitario aveva optato per un temporaneo rinvio, auspicando di poter instaurare un dialogo con la controparte statunitense. Vista la perdurante aggressività americana, tali contromisure — che interessano diverse tipologie di merci Usa — sono però ora prossime a essere implementate. Nello stilare la lista di beni da colpire, la Commissione Europea ha tentato di minimizzare il danno per l’economia europea, individuando prodotti che possono essere sostituiti, con relativa facilità, da parte dei consumatori. Il pacchetto riguarda inoltre beni dall’elevato valore simbolico (come le moto Harley Davidson) e molte merci provenienti da Stati a maggioranza repubblicana (come la soia, ampiamente coltivata in Louisiana).
I possibili piani d’attacco dell’Unione europea e gli effetti negativi
Le nuove misure annunciate da Trump il 2 aprile sollecitano però l’Unione europea a fare qualcosa di ancor più incisivo. Diverse sono le possibili linee di azione. L’imposizione di ulteriori contro-dazi sembra pressoché certa, soprattutto per ragioni politiche: è infatti altamente probabile che una mancata risposta sarebbe percepita da buona parte degli elettorati europei come un segno di debolezza dei loro rappresentanti. Inoltre, c’è il timore che l’azione congiunta delle tariffe e dei rilevanti incentivi fiscali decisi da Trump possa indurre diverse aziende europee a delocalizzare negli Stati Uniti. In tal caso, l’Europa potrebbe trovarsi in futuro a importare massicce quantità di beni che sono ora prodotti al suo interno; l’innalzamento dei dazi da parte dell’Ue servirebbe pertanto a disincentivare questa dinamica.
Tuttavia, un vasto piano di contro-dazi da parte europea potrebbe avere anche vari effetti negativi. In primo luogo, potrebbe rallentare la produttività e l’innovazione europea, in particolare se dovessero essere coinvolti settori come quello tecnologico. In secondo luogo, una significativa crescita dei dazi potrebbe far salire l’inflazione, spingendo la Banca Centrale Europea a una politica monetaria più restrittiva (in un contesto già caratterizzato da una frenata del PIL). Infine, in relazione a quanto appena scritto, merita d’essere sottolineato il tema dei rapporti di cambio tra valute. Secondo diversi economisti, il possibile aumento dell’inflazione negli Stati Uniti (probabile conseguenza delle misure protezionistiche trumpiane) potrebbe spingere la Federal Reserve ad alzare i tassi, con un conseguente apprezzamento del dollaro che, in buona parte, compenserebbe i dazi americani. Qualora anche l’inflazione europea dovesse invece aumentare, il valore di cambio dell’euro potrebbe a sua volta crescere, vanificando il possibile apprezzamento della moneta americana.
Una risposta di natura differente sarebbe rappresentata da una maggior apertura verso altri mercati globali; in tal maniera, secondo diversi osservatori, il calo di esportazioni verso gli Stati Uniti potrebbe essere bilanciato da un aumento verso quello di Paesi dal notevole potenziale demografico ed economico. Tuttavia, anche questa opzione presenta controindicazioni. L’apertura verso nazioni che non rispettano normative ambientali e giuslavoristiche affini a quelle europee potrebbe ingenerare una competizione distorta per le aziende del vecchio continente, con quanto ne deriverebbe di negativo per l’economia dell’Ue e per il raggiungimento di importanti obiettivi non-economici (come la riduzione delle emissioni di CO2). Parimenti — pensando soprattutto alla Cina — sorgono preoccupazioni in merito alla tutela della proprietà intellettuale e alla possibile insorgenza di pratiche commerciali scorrette (come il dumping) che potrebbero spingere ai margini del mercato diverse imprese dell’Ue.
L’Unione europea si trova dunque davanti a innumerevoli incertezze. Tuttavia, sembra logico affermare come sussistano tre punti fermi da cui l’azione europea non possa prescindere. Il primo di questi è il rafforzamento della domanda interna, elemento troppo a lungo trascurato negli scorsi decenni (in cui notevole rilevanza è stata attribuita alla crescita dell’export e al contenimento fiscale). Il secondo attiene al completamento del mercato unico e, quindi, alla rimozione delle molteplici barriere che continuano ad esistere fra i diversi Stati Ue. Il terzo è invece rappresentato dalla fondamentale esigenza di rispondere con una sola voce all’aggressività americana, evitando di perseguire miopi agende nazionali che, pensiamo, non farebbero altro che facilitare il brutale dividi et impera applicato da Trump.
Ricercatore nel programma “Multilateralismo e governance globale” dell’Istituto Affari Internazionali. La sua attività di ricerca ha primariamente riguardato il quadro di governance economica dell’Unione Europea, il tema delle criptovalute e quello delle monete digitali delle banche centrali.