L’intesa

Dovrebbe essere un punto di partenza, non il traguardo. Il Piano di pace per Gaza annunciato il 29 settembre a Washington da Donald Trump e Benjamin Netanyahu e l’accordo di Sharm el-Sheikh del 9 ottobre contengono elementi ancora da precisare e concordare. Serve tempo per innestare definitivamente la retromarcia dopo due anni di guerra e per riorganizzare l’amministrazione della Striscia. Il Piano e l’intesa si misureranno sulla loro effettiva attuazione, chiarendo sfumature e distinguo ancora sul tavolo. Il negoziato non è finito.

Pesa in ogni caso l’assunzione di responsabilità da parte degli Stati Uniti. Un eventuale flop del prossimo capitolo costituirebbe uno smacco difficilmente accettabile per il presidente americano. Il che ora dovrebbe tradursi in una perdurante sollecitazione degli Usa a Netanyahu per l’attuazione degli impegni e per guardare a un orizzonte di convivenza, non di scontro letale. Non è scontato, anche perché la restituzione di Gaza continua a essere un boccone amarissimo per Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, fautori fanatici della guerra messianica. Lo stesso Netanyahu ha schivato l’impegno a non annettere la Cisgiordania; nel Piano non se ne parla. Questo negoziato assomiglia a una trattativa d’affari, ora potrebbe andare avanti, sia pure faticosamente, per i tasselli mancanti (disarmo, amministrazione, etc.) o arenarsi, ma il suo fallimento avrebbe un costo molto alto anche per gli Usa.

Il lavoro è impegnativo anche sul lato dei Paesi arabi e della Turchia, che dovrebbero essere pronti a forzare ulteriormente Hamas verso i prossimi passi necessari. Per una spietata organizzazione terroristica, fiaccata nella struttura e nelle capacità ma tuttora attiva, non è semplice piegarsi a cedere le armi (a chi? come?), a uscire da Gaza e a rinunciare a ogni ruolo a favore di un “Consiglio di pace” a guida del presidente degli Stati Uniti e composto da tecnocrati palestinesi indipendenti. Tanto più che la prospettiva dell’auto-determinazione dei palestinesi e di un’entità statale è degradata a mera “aspirazione”, certo un punto molto debole del piano su cui sarà necessario un nuovo impegno negoziale a sostegno delle istanze palestinesi. E se Netanyahu avrà difficoltà con i suoi alleati, altrettante possono incontrarne i Paesi sunniti con quel che resta di Hamas, che ha coltivato impunemente il martirio di ebrei (e palestinesi).

Auspici e appelli si indirizzano anche ai Paesi arabi: sino a pochi giorni fa, sì, formalmente critici di Hamas, ma nella sostanza riluttanti a costringerlo in un angolo come avrebbero potuto fare da tempo. D’altra parte, con l’intesa di Washington – come noto, al momento avviata solo in parte – si potrebbero riaffacciare in filigrana gli accordi di Abramo. È contro quegli accordi che Hamas ha concepito e realizzato il massacro del 7 ottobre di due anni fa con evidente soddisfazione degli ayatollah di Teheran, contrari a ogni tentativo di stabilizzazione della regione. Ora anche l’influenza dell’Iran è ridimensionata; Trump arriva a ipotizzare l’estensione degli accordi persino a Teheran, nel mondo che verrà. Il programma è vasto e sono legittimi gli interrogativi sull’attuazione completa dei venti punti del piano Usa. Tuttavia, se le monarchie sunnite mostrassero davvero di voler prendere in mano il loro destino, per puntare a stabilità e sviluppo – le loro priorità – e a far pesare il loro ruolo per debellare i mercanti di morte, allora qualche spiraglio potrebbe aprirsi anche per una nuova geografia dell’intero Medio Oriente, Israele permettendo. I tempi sono lunghi e le insidie non poche. La maledizione mediorientale del troppo poco, troppo tardi continua ad aleggiare su tutti gli attori, ma la liberazione di ostaggi israeliani e detenuti palestinesi con l’interruzione della guerra a Gaza sono un passaggio di estrema importanza. Il sollievo è generalizzato, non solo sul terreno, e dopo lutti e distruzioni immani è comprensibile che si intraveda un filo di speranza.

Per questo occorrerà che tutti, in primis gli Stati Uniti, si adoperino ancora, con ogni energia, affinché l’embrione di tregua si consolidi, nonostante le resistenze, e apra la strada a una composizione negoziata del conflitto. L’apprezzamento di molti Paesi è una base importante, su cui costruire un altro pezzo di strada, finalmente condivisa, e restituire un barlume di fiducia nel futuro a donne e uomini stremati da una violenza lunga e insensata. Più che criticati, i limiti dell’intesa vanno superati.

Valensise

Presidente dell'Istituto Affari Internazionali e presidente del Centro italo-tedesco per il dialogo europeo Villa Vigoni su proposta congiunta dei governi italiano e tedesco. Diplomatico di carriera, ha lavorato alla Direzione degli Affari Economici (1975), all’Ambasciata d’Italia a Brasilia (1978) e all’Ambasciata d’Italia a Bonn (1981). Dal 1984 al 1987 è stato consigliere a Beirut. Nel 1991 è nominato Primo consigliere a Bruxelles, presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea. Nel 1997 diventa ambasciatore a Sarajevo. Nel 1999 assume la direzione dei Rapporti con il Parlamento e poi del Servizio Stampa alla Farnesina. È Ambasciatore a Brasilia dal 2004, a Berlino dal 2009 e Segretario Generale della Farnesina dal 2012 al 2016.

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