L’Alleanza atlantica e la guerra ucraina: cosa cambierà per l’Europa e l’Italia?

“Tenere fuori l’Unione Sovietica, dentro gli americani, e sotto i tedeschi” (“to keep the Soviet Union out, the Americans in, and the Germans down). Così il primo Segretario Generale della Nato, Hastings Lionel Ismay, riassumeva funzioni e scopi dell’Alleanza atlantica, il cui compito era appunto quello di contribuire alla strategia di contenimento dell’Urss, formalizzando (e istituzionalizzando) l’impegno degli Usa a proteggere i loro alleati europei e imbrigliando però al contempo la Repubblica Federale Tedesca all’interno di un’architettura di sicurezza che ne limitava l’autonomia e, in ultimo, la sovranità.

La massima di Ismay è rimasta – in una certa misura – valida nei decenni, come ben si è visto ad esempio nel 1990-91, quando la questione dell’allargamento della Nato si è inestricabilmente intrecciata con quella della riunificazione della Germania. Possiamo applicarla anche all’attualità? E, se così fosse, ci aiuta anche a decifrare meglio il ruolo e il futuro dell’Italia dentro un’alleanza e un contesto securitario europeo destinati a essere profondamente alterati dalla guerra in Ucraina?

L’atlantismo di Biden

Con tutte le cautele del caso, la risposta è almeno in parte positiva. Ben prima dell’aggressione russa, l’amministrazione Biden aveva fatto proprio un ostentato atlantismo, centrato sull’asserita necessità di riportare le relazioni con l’Europa e la Nato al centro dell’azione internazionale di Washington. Un atlantismo, quello di Biden e del suo segretario di Stato Antony Blinken, inteso in senso globale e funzionale, ad esempio, alla competizione con la Cina che per essere condotta efficacemente necessita di una piena collaborazione europea, soprattutto nel filtrare (e ridurre) gli investimenti esteri cinesi o nel limitare presenza e peso di Pechino nelle catene globali di produzione.

Quello di Biden è un atlantismo, inoltre, declinato in chiave tanto strategica quanto discorsiva: centrale, cioè, nella retorica binaria utilizzata da Biden per rappresentare un ordine internazionale marcato dalla contrapposizione tra una comunità delle democrazie a guida statunitense e un nuovo fronte autoritario rappresentato da Cina e Russia (su questo, va detto, le continuità con la National Security Strategy di Trump del dicembre 2017 appaiono significative). Per Washington, la guerra in Ucraina ha validato sia ideologicamente sia strategicamente tale interpretazione dell’atlantismo. E con essa, quindi, la fondatezza sempiterna della formula di Ismay.

La guerra in Ucraina è servita per riaffermare la leadership statunitense di un’Alleanza atlantica ricompattata dalla presenza di un inequivocabile nemico comune, forse il collante più forte nella costruzione e preservazione di un’alleanza. Contestualmente, sono state silenziate le ambizioni europee di sviluppare una qualche forma di autonomia strategica da costruirsi anche emancipandosi dalla dipendenza securitaria nei confronti degli Usa. E sono stati riportati all’ordine quelli alleati – Germania su tutti – che a questo nuovo schema bipolare avevano pensato di potersi surrettiziamente sottrarre, costruendo rapporti economici privilegiati proprio con l’asse autoritario russo-cinese. In sintesi, nella Nato il conflitto ucraino ha ribadito l’impegno e la leadership statunitense, la gerarchia di potenza (e di ruoli) interna all’alleanza e la sua funzione ultima di strumento con cui contenere le velleità revisioniste della Russia.

Gli effetti hanno già iniziato a manifestarsi.  L’aumento degli impegni (e delle spese) militari annunciati da molti membri Nato, a partire dalla stessa Germania, avvengono dentro una cornice pienamente atlantista. L’alleanza vede il suo baricentro spostarsi comprensibilmente verso l’Europa centro-orientale, con un’inevitabile ridefinizione dei suoi impegni e delle sue priorità strategiche. Tramonta per il momento qualsiasi residuo progetto d’integrazione della Russia dentro un quadro securitario ed economico paneuropeo.

Le conseguenze per l’Italia e l’Europa

L’Italia è il Paese che, assieme alla Germania, ha maturato una maggiore dipendenza dalle importazioni di petrolio e gas naturale dalla Russia. È il Paese, cioè, maggiormente integrato con Mosca da un punto di vista degli scambi commerciali (e, anche, degli investimenti diretti). Tra integrazione economica, efficacia di un regime sanzionatorio come quello adottato nei confronti della Russia e, infine, riverberi di tali misure sulla parte sanzionante esiste una interdipendenza strettissima. Semplificando, l’Italia è uno dei paesi più esposti al rischio del prolungamento di una guerra che determini l’intensificazione e la cronicizzazione delle sanzioni contro Mosca.

A questo si accompagna un dato politico che molti sondaggi, presenti e passati, evidenziano con chiarezza. Pur di fronte all’orrore per l’aggressione russa, l’Italia rimane un Paese dove segmenti non marginali dell’opinione pubblica e del mondo politico hanno un’opinione favorevole, o comunque non ostile, nei confronti della Russia e di Putin. Posizioni, queste, che per il momento si traducono in un dibattito dove talora si minimizza, e finanche giustifica, l’azione di Mosca, e nel quale le perplessità verso la linea adottata dagli Usa e dalla Nato e verso il crescente sostegno militare all’Ucraina trovano una forte eco mediatica. Le implicazioni politiche potrebbero essere profonde e, in prospettiva, contribuire, come già fu in certi passaggi della Guerra Fredda, a mettere in discussione l’affidabilità dell’Italia dentro l’Alleanza Atlantica.

Resta infine il cruciale contesto strategico. Una Nato a trazione Stati Uniti – Regno Unito – Polonia – Paesi Baltici pone evidenti problemi a molti altri paesi europei, Germania e Italia su tutti. Il dato politico e, se vogliamo, di cultura strategica s’intreccia qui con quello più strettamente geopolitico. Nella gerarchia di priorità e d’impegni dell’alleanza, il fianco meridionale potrebbe risultare sacrificato o divenire comunque subalterno. Anche in questo caso troviamo elementi di continuità con il passato, dal momento che una preoccupazione costante per i governi italiani del secondo dopoguerra fu proprio quella di non essere abbandonati, o comunque poco considerati, dall’alleato maggiore statunitense. All’interno di tale continuità risiede, però, anche una permanente ambiguità derivante dal fatto che l’abbandono o la disattenzione possono in teoria aprire spazi di manovra autonomi che appaiono oggi in larga parte preclusi dentro le strutture atlantiche.

Foto di copertina EPA/OLIVIER HOSLET

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