La scarsa abilità negoziale pesa sui colloqui per la tregua in Ucraina

L’immagine di Donald Trump e Volodymir Zelensky seduti uno di fronte all’altro al centro della basilica di San Pietro conserverà a lungo tutto il suo impatto emotivo. Due mesi dopo la penosa scenata nello Studio Ovale, si riannoda un filo di comunicazione tra Stati Uniti e Ucraina e nella cornice solenne delle esequie del Pontefice sembra aprirsi uno spiraglio di dialogo. In tanti vorrebbero credere in un primo passo per una tregua, resa oggi ancor più necessaria dalla stanchezza e dagli orrori della guerra voluta da Mosca. Qualcuno ipotizza addirittura un miracolo del Papa appena scomparso. È il segno di quanto sia diffusa la domanda di pace.

Siamo indotti a pensare che le armi potrebbero davvero tacere e che le dispute siano riconducibili a un tavolo negoziale, anziché essere risolvibili nelle trincee o con missili e droni. Se tutto questo è plausibile e giustificato dal desiderio che sia posta fine a una guerra insensata, occorre separare i desideri dalla realtà, soprattutto quando questa è costellata di minacce gravi e di ostacoli grandi come macigni.

Le mosse della nuova amministrazione americana per una soluzione diplomatica e rapida della guerra sinora hanno allontanato la meta, anziché ravvicinarla. Lo sbrigativo allineamento iniziale di Trump con le condizioni poste dalla Russia ha complicato l’esercizio e nuociuto alla mediazione americana: non si può mettere il peso su un solo piatto della bilancia, tanto meno a sostegno delle posizioni di chi ha avviato la guerra. Né è produttivo un negoziato in cui prima ancora del suo inizio si fissino a favore di una parte concessioni unilaterali, non bilanciate da elementi a favore della controparte, come quelle imposte a Kyiv, quali la rinuncia de jure alla sovranità sulla Crimea, la perdita definitiva delle regioni ucraine orientali occupate (o annesse) dalla Russia, la cancellazione delle sanzioni alla Russia.

Anche se può apparire un aspetto marginale, difficoltà derivano anche da un certo divario di abilità negoziale. L’inviato di Trump, Steve Witkoff, è un immobiliarista poco esperto di diplomazia, che saluta Putin con la mano sul cuore e deve fronteggiare la grande professionalità dei negoziatori russi. Ma soprattutto a ridimensionare qualche ottimismo di troppo pesa il fatto che sinora Mosca non si è spostata di un centimetro dalle sue rivendicazioni, confermate da poco dal ministro degli Esteri Sergej Lavrov: preclusione definitiva dell’eventuale entrata dell’Ucraina nella Nato, riconoscimento di Crimea e delle quattro regioni orientali (Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhizhia) quali territori russi, eliminazione della sanzioni alla Russia, smilitarizzazione e “denazificazione” dell’Ucraina. Colpisce la quasi totale corrispondenza con le prime indicazioni di Washington.

D’altra parte, negli ultimi giorni Donald Trump non ha nascosto la frustrazione né il timore che il capo del Cremlino lo stia prendendo in giro: parla di pace, ma aumenta i bombardamenti su obiettivi civili ucraini (Sumy, Kyiv e altri centri). Certo, c’è da seguire l’andamento contraddittorio dell’umore presidenziale dai suoi post. Tuttavia, dopo appelli e proposte non risolutivi, il presidente Usa potrebbe ricalibrare la sua linea con una pressione mirata su Mosca. La priorità è sospendere i combattimenti. L’oltranzismo russo, le intermittenti minacce di Mosca e la contrarietà russa all’intesa appena firmata Ucraina-Usa per lo sfruttamento congiunto delle risorse minerarie ucraine potrebbero determinare qualche ripensamento di Trump sulla sua linea accondiscendente con Mosca.

A Kyiv il realismo è d’obbligo ed è gratificato dalla ripresa degli aiuti finanziari americani alla difesa dell’Ucraina, i primi dell’era Trump, anche se relativamente modesti (50 milioni di dollari). Ora Zelensky mira soprattutto a un cessate il fuoco, più lungo dei tre giorni concessi da Putin, su cui avviare finalmente un negoziato equo, con mutue rinunce. Su tutto il resto, territori, garanzie di sicurezza, sanzioni, ricostruzione, collocazione internazionale dell’Ucraina – è il sottinteso – si dovrà trattare a bocce ferme, non sotto le bombe.

A questo punto anche gli europei, esclusi dai colloqui diretti, potrebbero raccomandare a Washington maggior rigore nei confronti di Mosca. Se si vuole davvero mettere fine a questa sciagurata guerra, più che quelli che l’hanno subita e patita sulla loro pelle occorre convincere chi l’ha iniziata. Ma la strada è ancora molto lunga e tutta in salita.

Valensise

Presidente dell'Istituto Affari Internazionali e presidente del Centro italo-tedesco per il dialogo europeo Villa Vigoni su proposta congiunta dei governi italiano e tedesco. Diplomatico di carriera, ha lavorato alla Direzione degli Affari Economici (1975), all’Ambasciata d’Italia a Brasilia (1978) e all’Ambasciata d’Italia a Bonn (1981). Dal 1984 al 1987 è stato consigliere a Beirut. Nel 1991 è nominato Primo consigliere a Bruxelles, presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea. Nel 1997 diventa ambasciatore a Sarajevo. Nel 1999 assume la direzione dei Rapporti con il Parlamento e poi del Servizio Stampa alla Farnesina. È Ambasciatore a Brasilia dal 2004, a Berlino dal 2009 e Segretario Generale della Farnesina dal 2012 al 2016.

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