In Italia è sempre mancato negli ultimi ottanta anni un serio ed efficace impegno per costruire una cultura della difesa e della sicurezza e, oggi, ne paghiamo duramente il prezzo. La reazione alle illusioni indotte dalla faciloneria del regime fascista che presentava l’Italia come potenza militare (smascherate dalle ripetute sconfitte su tutti i fronti, dall’occupazione tedesca, dai bombardamenti alleati), ha contribuito a spingere nel dopoguerra la nostra opinione pubblica verso altre illusioni: quella di poter vivere in eterno sotto la protezione convenzionale e nucleare dell’alleato americano e, comunque, in un nuovo mondo in cui le guerre, al massimo, avrebbero continuato a svolgersi in altri continenti. Questa convinzione è stata ben evidenziata dall’atteggiamento verso la partecipazione italiana alla NATO dei due maggiori partiti di opposizione (a sinistra e a destra): ideologicamente contrari, soprattutto all’inizio, ma sostanzialmente consapevoli che ci si poteva sentire più sicuri dentro che fuori.
Con la fine della Guerra Fredda, per un decennio ha imperato il dibattito sul “dividendo della pace”, anche se, non avendo precedentemente investito nel settore militare, non c’erano profitti da distribuire, ma solo debiti e carenze da soddisfare. Poi, con l’arrivo delle guerre ibride, la scarsa attenzione della nostra opinione pubblica si è spostata sulle “missioni di pace”, sempre presentate in chiave buonista per non urtare il “pacifismo” così radicato nell’area cattolica, in quella populista e in quella di sinistra (sia storica che movimentista). Nemmeno la prima vera guerra combattuta, quella in Afghanistan, è riuscita a scalfire l’atteggiamento di serena tranquillità regnante nel nostro Paese.
L’iniziale obiettivo NATO del 2% del PIL per la difesa
E non lo ha fatto nemmeno l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, con la conseguente decisione dell’Alleanza Atlantica al vertice di Cardiff nello stesso anno di rafforzare le sue capacità di difesa, fissando l’obiettivo di investirvi almeno il 2% del PIL entro dieci anni.
Tornati a Roma, i nostri governanti se ne sono dimenticati, salvo ribadire il nostro impegno nei dieci vertici successivi da parte dei Presidenti del Consiglio, dei Ministri degli Affari esteri e della Difesa “pro-tempore”, ma senza poi fare nulla per mettere in pratica questa decisione. Il “mantra” politico dei sei governi che si sono succeduti in questo decennio (Renzi, Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi, Meloni) è sempre stato: non ci sono sufficienti risorse finanziarie e, in ogni caso, non si possono trovare a scapito delle spese sociali. Il sottinteso, sempre condiviso, è che, altrimenti, si sarebbe rischiato di perdere consenso elettorale. E, per parere unanime dei nostri decisori politici, non si poteva aumentare il debito pubblico perché si sarebbero sforati i parametri del Patto di Stabilità e Crescita (per altro non imposti da qualche “gnomo” nascosto nell’ombra, ma discussi e approvati dall’Italia nel quadro dell’Unione Europea).
Ne è conseguita una costante richiesta italiana di escluderne le spese militari (in parte, secondo i governi di centro-sinistra, e del tutto, con il governo di centro-destra). Ora, avendo la Commissione Europea accettato lo scorporo fino al 1,5% del PIL investito nella difesa nell’ambito del programma ReArm Europe, per lo meno per quattro anni prorogabili, ci si accorge che in seguito bisognerà, però, rimettere i conti in ordine e che, comunque, un aumento del debito pubblico inciderebbe sul suo tasso di interesse. Di qui la tiepida, se non fredda, iniziale accoglienza italiana rispetto alla nuova flessibilità europea.
Nello scorso decennio, il risultato dell’impegno a raggiungere il 2% del PIL nella difesa, solennemente sottoscritto in sede NATO e confermato in sede europea, è che se nel 2014 spendevamo (secondo i criteri NATO concordati fra tutti i Paesi alleati) l’1,14% nel 2024 siamo saliti all’1,49% con un incremento medio annuo dello 0,03%. Con questo ritmo l’obiettivo del 2% verrebbe, quindi, raggiunto intorno al 2041, con soli 17 anni di ritardo. Ma, con un colpo di scena, all’inizio dell’estate l’Italia ha annunciato che in realtà, ricalcolando le nostre spese, al 2% ci siamo già arrivati. Di qui l’ancora maggiore attesa per il Documento Programmatico Pluriennale (DPP) 2025-2027 del Ministero della Difesa, che dovrebbe essere presentato ad aprile ma ogni anno tarda in media di 3-5 mesi, e che, forse, chiarirà il mistero (sperando che dopo la “finanza creativa” di venti anni fa, non si voglia ora ricorrere alla “statistica creativa”).
Una costante della storia italiana
Nella storia della Repubblica non ci sono state molte scelte bipartisan, ma quella di non investire nelle spese per la difesa e la sicurezza è sicuramente in vetta alla classifica. Nonostante i 68 governi nei 79 anni della Repubblica, con tutti i partiti coinvolti (anche se chi più e chi meno) il copione sul tema è sempre rimasto lo stesso: criticare quando si sta all’opposizione e non fare nulla una volta arrivati al governo.
Non ci si può, quindi, meravigliare se manca nel nostro Paese una cultura della difesa e della sicurezza. Lo dimostrano i risultati di alcuni sondaggi di opinione: lo scorso anno il 75% degli italiani si dichiarava contrario ad ogni strategia di riarmo; quest’anno il 34% vorrebbe mantenere l’attuale livello di spesa, il 23% lo vorrebbe abbassare e solo il 33% è favorevole a un aumento degli investimenti in difesa; alla domanda se sarebbero disposti a impugnare le armi per difendere i confini nazionali, il 78% degli italiani intervistati ha risposto negativamente.
C’è stata un’occasione unica nella nostra recente storia in cui, subito dopo l’attacco russo all’Ucraina nel febbraio 2022, è sembrato che i nostri decisori politici fossero diventati consapevoli della necessità di una svolta, ma, purtroppo, la legislatura stava finendo e non si è riusciti a coglierla. Infatti, la sorpresa e la condanna unanime da parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche avevano portato il 16 marzo 2022 all’approvazione a stragrande maggioranza da parte della Camera dei Deputati di un Ordine del Giorno proposto da un deputato della Lega e co-firmato da parlamentari del M5S, PD, FI, IV e FDI in cui “si impegna il Governo ad avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2 per cento del PIL, dando concretezza a quanto affermato alla Camera dal Presidente del Consiglio il 1° marzo scorso e predisponendo un sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione, a tutela degli interessi nazionali …”. È quasi incredibile che solo tre anni fa anche coloro che oggi contrastano l’aumento delle spese militari (a livello europeo e nazionale) la pensavano diversamente e che tutti riconoscevano apertamente che, fino ad allora, avevamo evidentemente dimenticato gli impegni internazionali assunti nel 2014.
Il nuovo obiettivo NATO del 3,5%
Rispetto dell’integrità territoriale e non ingerenza sono i due principi che, per lo meno in teoria, sono stati condivisi da tutti gli stati in questo dopoguerra e sulla loro base si è cercato di mantenere sotto controllo tensioni e crisi nei rapporti internazionali. L’aggressione russa all’Ucraina li ha spazzati via, provocando un drammatico cambiamento dello scenario strategico internazionale in cui ha preso il sopravvento la deterrenza militare come strumento per contrastare la postura imperialista russa e, in prospettiva, l’espansionismo cinese. Di qui la decisione assunta dal vertice dell’Alleanza Atlantica de L’Aja di elevare l’impegno per la spesa militare al 3,5% entro il prossimo decennio, a cui si aggiungerebbe un ulteriore 1,5% per spese per la sicurezza, comprese infrastrutture critiche e resilienza civile. Quest’ultimo ovviamente è solo uno “specchietto per le allodole” destinato ad accontentare l’ego dell’ondivago Presidente americano, visto che in questo “contenitore” ogni Paese potrebbe tranquillamente inserire le sue spese infrastrutturali (reti e sistemi per il trasporto ferroviario e stradale, per l’energia e le comunicazioni, per la sorveglianza del territorio ma, volendo, anche per l’assistenza sanitaria o l’anti-incendio). Tanto è vero che in Italia qualcuno ipotizza di considerare il Ponte di Messina o la diga foranea di Genova.
Ma rimanendo sul più serio 3,5%, per tutti i Paesi dell’Europa occidentale e meridionale (la Polonia già ha superato il 4%) si tratterà di uno sforzo impegnativo, e lo sarà a maggior ragione per l’Italia visto che nel precedente decennio si è faticato ad aumentare dello 0,35% ed ora bisognerà investire un 2% aggiuntivo del PIL rispetto al 2024. Quindi, di fatto, bisognerà raddoppiare le spese reali per la difesa entro il 2035.
Il ruolo delle Forze Armate nel costruire una cultura della difesa e della sicurezza
Purtroppo bisogna ancora una volta prendere atto che l’illusione pacifista è così radicata nel nostro Paese da non riconoscere l’evidenza dei fatti, come l’esplodere di nuove guerre in Europa e in generale nelle aree più vicine all’Ue e alla NATO. Troppi italiani non vogliono riconoscere che nella nuova era in cui viviamo gli impegni e i trattati internazionali sembrano essere considerati apertamente carta straccia anche dal nostro alleato americano, oltre che da Russia e Israele (ma vi sono anche altri Paesi che lo hanno fatto senza ammetterlo, fornendo finanziamenti e armi a regimi aggressivi e milizie irregolari). Le nuove regole sono basate sulla forza (economica e, inevitabilmente, militare) e non sul diritto, come conferma anche la crisi di tutti gli strumenti internazionali costruiti in questi ultimi settantacinque anni per gestire le diverse criticità di un mondo sempre più complesso. È evidente che, in alcuni casi per ragioni ideali e, in altri, per ragioni biecamente elettorali, molte forze politiche cavalcano e stimolano le comprensibili preoccupazioni di un’opinione pubblica disinformata e impreparata.
Una forte cultura della difesa e della sicurezza può essere costruita solo in un’ottica bipartisan, senza identificazioni ideologiche e politiche, e deve diventare parte dell’identità nazionale e della consapevole appartenenza degli italiani alla comunità nazionale: senza sicurezza non c’è sviluppo, né a livello internazionale né nazionale, e per garantire la sicurezza servono anche e soprattutto le capacità di difesa del Paese.
Il compito di difendere il nostro Paese spetta alle Forze Armate che lo hanno sempre svolto con tutti i diversi governi che si sono succeduti nella Repubblica.
Le spese per la difesa devono garantire che le Forze Armate possano svolgere il loro ruolo e questo presuppone che i cittadini-elettori siano consapevoli che queste spese sono indispensabili per difendere loro e i loro figli. Questa è l’essenza della cultura della difesa e della sicurezza che va costruita, anche e soprattutto con l’attivo impegno delle Forze Armate che devono farsi identificare come patrimonio di tutti e non di una parte. Per questo l’articolo 87 della Costituzione stabilisce che sia il Presidente della Repubblica ad avere “il comando delle Forze Armate” e a presiedere “il Consiglio Supremo di Difesa costituito secondo la legge”.
È, quindi, essenziale che le Forze Armate si facciano meglio conoscere, in particolare tra le più giovani generazioni e nelle sedi in cui si stanno formando le future classi dirigenti e gli operatori dell’informazione, come le università (anche perché qui si continua a registrare la maggiore opposizione ideologica a ogni forma di rafforzamento della deterrenza militare). Ma, per farlo, deve essere sviluppato un clima di collaborazione, basato sulla massima apertura allo studio e alla ricerca sui temi della difesa: la costituzione della nuova Università della Difesa è un passo importante, ma solo se attraverso essa si aumenterà l’attenzione e l’interesse di tutto il mondo universitario civile e dei think tank, con un reciproco e proficuo confronto. Una struttura gerarchica e disciplinata lo può fare senza rischi sotto la direzione e il controllo dei vertici militari.
È, quindi, di buon auspicio che, nel presentare recentemente al Parlamento le linee generali del suo nuovo incarico, il Capo di Stato Maggiore della Difesa abbia sottolineato, fra il resto, che lo strumento militare deve essere “in grado di intercettare le macro tendenze globali tramite il collegamento a competenze esterne alla Difesa, tra cui il mondo accademico, l’industria e i think tank, e infine che sia capace di supportare lo sviluppo e l’implementazione della cultura della difesa e di concorrere alla capacità di influenza nazionale nei consessi internazionali”.
Il contributo delle Forze Armate non può, però, rimanere isolato. Serve anche una forte azione di informazione e formazione della nostra opinione pubblica che coinvolga tutte le istituzioni: la Presidenza della Repubblica, il Parlamento, il Governo nel suo complesso e non solo il Ministro della Difesa. Essendo questo un problema nazionale, e non solo della Difesa, sarebbe opportuno che il coordinamento della definizione ed esecuzione di una simile strategia complessiva fosse gestito dalla Presidenza del Consiglio in un’ottica bipartisan, rendendo così evidente l’importanza che le viene attribuita e sfruttando l’autorevolezza di questa istituzione. E sarebbe anche necessaria la disponibilità per lo meno della parte più responsabile dell’opposizione nella consapevolezza che, se diventasse maggioranza, si troverebbe a dover compiere le stesse scelte che oggi devono necessariamente essere fatte dal Governo e dal Parlamento.
È un percorso inevitabilmente lungo, ma non vi sono scorciatoie. In futuro una maggiore cultura della difesa e della sicurezza servirà ancora più di oggi.5
Vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali. Dal 1984 svolge attività di studio e consulenza nel settore aerospaziale sicurezza e difesa per conto di organismi pubblici, di centri e istituti di ricerca, di società, di associazioni industriali. Dal 1992 al maggio 2018 è stato consulente della Presidenza del Consiglio presso l’Ufficio del Consigliere militare per le attività nel campo della difesa. Dal 2001 al 2017 è stato consulente del Ministero della Difesa – Segretariato generale della Difesa/Direzione nazionale degli armamenti – per gli accordi internazionali riguardanti il mercato della difesa. Dal 2014 al maggio 2018 è stato consigliere per gli affari europei del Ministro della Difesa e da giugno 2020 a novembre 2022 ha riassunto lo stesso incarico.