Il futuro della Comunità politica europea è a un bivio

La terza riunione della Comunità Politica Europea (CPE) a Granada del 5 ottobre ha dato indicazioni contrastanti sulla capacità di questo nuovo forum multilaterale di colmare il vuoto politico e istituzionale creato dall’invasione russa dell’Ucraina, nel cuore della precedente architettura di sicurezza europea, il cui assetto è stato travolto dalla violazione del diritto internazionale da parte di Mosca. I primi due incontri avevano raggiunto risultati pratici soprattutto su questioni di sicurezza, energia e infrastrutture, includendo attraverso incontri bilaterali anche quei Paesi solitamente ai margini del dibattito sulla sicurezza europea e inviando un forte segnale di unità politica radunando 47 Paesi ed escludendo Russia e Bielorussia.

Tuttavia, i limiti formali e politici dell’iniziativa sono diventati molto più evidenti nel corso dell’ultimo vertice, dove il coinvolgimento di partner esterni in aree chiave è stato limitato e il dibattito è stato incentrato principalmente sulla questione migratoria. Dopo un inizio promettente, i risultati del summit di Granada invitano a riconsiderare il formato del CPE, anche per evitare complesse sovrapposizioni con le istituzioni dell’Unione europea (Ue).

Alla ricerca di un’identità

La mancanza di risultati concreti al termine del vertice, testimoniata anche dall’assenza di un comunicato finale e di una conferenza stampa, è frutto anche del principale nodo politico della CPE, ovvero prediligere la struttura di forum informale per il dialogo strategico multilaterale volto a favorire l’isolamento della Russia, o piuttosto un organismo con obiettivi politici chiari e definiti.

Entrambe le soluzioni presentano difficoltà e ostacoli. Nel primo caso un’eccessiva indeterminatezza di scopi può far svanire rapidamente l’interesse verso l’iniziativa una volta terminata la guerra contro l’Ucraina. Questo formato sarebbe strutturalmente dipendente dalla partecipazione alle riunioni dei vari leader, come dimostrano le assenze di Erdogan e Ilham Aliyev a Granada che hanno limitato il confronto sulla crisi del Nagorno Karabakh. Il secondo modello, più “politico”, mette inevitabilmente in discussione i legami della CPE con l’Ue.

Una maggiore formalizzazione porterebbe infatti a crescenti sovrapposizioni con la Ue sia in termini di obiettivi che di competenze, mettendo potenzialmente a repentaglio uno dei maggiori successi sin qui conseguiti dalla CPE, ovvero il riavvicinamento strategico tra i Paesi UE e il Regno Unito. Il ritrovato dialogo dopo le tensioni derivanti dagli accordi Brexit è un tassello fondamentale per la cooperazione europea soprattutto in materia di sicurezza e difesa, come dimostra anche l’impegno del Regno Unito ad aderire alla Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO). Si è assistito anche a un rafforzamento delle relazioni bilaterali con i singoli Stati membri, a partire dalla Francia con cui è stato intensificato il dialogo sulla migrazione nell’ambito del Gruppo di Calais. Oltre alla questione migratoria, il rapporto con il Regno Unito può essere strategico anche in materia di energia, come nel caso della ripresa della cooperazione con il Regno Unito nel quadro della North Seas Energy Cooperation (NSEC), che comprende già Stati UE e Norvegia e mira a sviluppare le energie rinnovabili.

Una CPE che non si limiti più a fungere esclusivamente da forum di dialogo può creare un conflitto di competenze con Bruxelles in quelle materie che sono già strettamente regolamentate a livello europeo, generando tensioni con il Regno Unito che sin dall’inizio del progetto ha sottolineato l’urgenza di evitare ogni riferimento all’Ue anche sul versante della scelta di nome e simboli della nascente iniziativa.

Prospettive di allargamento

Uno dei presupposti su cui si fonda la Comunità è la consapevolezza che Europa e Ue non coincidono e non sono necessariamente concetti sovrapponibili. L’inclusione di un gruppo molto più ampio di Stati nella CPE può contribuire a colmare questo divario di prospettive strategiche ampliando l’orizzonte del dibattito sulla sicurezza europea. Per superare gli attuali limiti della Comunità, tuttavia, sarà fondamentale sviluppare un formato che consenta flessibilità e informalità, ma all’interno di un quadro di cooperazione più preciso.

Una maggiore partecipazione va certamente incoraggiata, ma prendendo in considerazione almeno tre gruppi di Paesi, oltre ai membri dell’Ue, ognuno dei quali presenta necessità specifiche. In primo luogo, è fondamentale il coinvolgimento nella Comunità dei Paesi candidati all’adesione all’Ue, dissipando però le ambiguità sul rapporto tra processo di allargamento e CPE, così che questa non venga percepita come uno strumento per rinviare indefinitamente il processo di adesione. In secondo luogo, la CPE dovrebbe consolidare la rinnovata partnership con il Regno Unito al di fuori delle competenze formali dell’Ue, per stimolare la cooperazione a livello bilaterale su un’ampia gamma di argomenti anche in vista del prossimo incontro che sarà ospitato dal Regno Unito nel 2024. Infine, la CPE dovrebbe ambire a includere anche i Paesi dell’area MENA, attualmente esclusi dal framework. Come dimostrano la recente escalation tra Israele e Hamas e le turbolenze politiche nel Maghreb, la regione continua a generare sfide significative per la sicurezza europea. L’assenza di dialogo con Paesi che sono interlocutori strategici può ostacolare in modo significativo la capacità della CPE di fungere da piattaforma di cooperazione strategica in materia di sicurezza.

Il futuro della CPE a un bivio

La mancanza di obiettivi chiari rende complessa la valutazione dell’efficacia della CPE, correndo così il rischio di legare la sua stessa esistenza esclusivamente alle contingenze dell’attuale scenario internazionale e ponendo sostanziali interrogativi sul suo destino una volta terminato il conflitto in Ucraina. Per il futuro appare estremamente difficile ipotizzare un elevato grado di istituzionalizzazione della Comunità, in quanto ciò allontanerebbe un numero consistente di Paesi e aumenterebbe la sovrapposizione con l’attuale ecosistema istituzionale europeo. Ciononostante, la CPE dovrebbe delineare obiettivi politici chiari e definiti, evolvendo verso un incubatore di progetti concreti che coinvolgano sia i Paesi UE che quelli extra-UE in settori quali minacce ibride, resilienza della società e promozione di una cultura diplomatica europea allargata.

Il vertice di Granada, ad esempio, è stato utilizzato come piattaforma, da parte dell’Ue, per annunciare il lancio di un programma di formazione sulla cybersicurezza rivolto membri extra-UE della CPE. Allo stato attuale, la Comunità sembra dinanzi a un bivio per quanto riguarda la sua evoluzione futura. Da un lato il mantenimento di una struttura puramente informale, con il rischio appunto che l’interesse verso l’iniziativa svanisca una volta superata la criticità dell’attuale fase politica. Dall’altro un minimo processo di istituzionalizzazione per migliorare il coordinamento tra gli incontri, garantire la coerenza logica tra gli eventi e sollevare il Paese ospitante dal compito di essere il solo responsabile della direzione politica di ciascun vertice. Il coordinamento e il dialogo tra la presidenza precedente, quella attuale e quella successiva nella preparazione dell’agenda di ogni summit, così come incontri più regolari tra consiglieri e funzionari governativi tra un vertice e l’altro, potrebbero contribuire a definire in modo più chiaro l’identità della CPE, garantendole un futuro che oltre l’attuale scenario internazionale.

Foto di copertina EPA/PETER KLAUNZER

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