Il magro bilancio della lotta all’obesità

Il 4 marzo scorso, in concomitanza con il quinto anniversario dell’inizio della pandemia da Sars-CoV-2 e nel sostanziale silenzio dei media, si è celebrato il World Obesity Day. Fenomeno di dimensioni planetarie e in costante crescita, l’obesità è associata a circa il 70% delle malattie non trasmissibili (NCD) tra cui patologie cardiovascolari, respiratorie, muscolo-scheletriche e tumori. A livello globale, secondo i dati della World Health Organization (WHO) oltre un miliardo di persone sono obese, di cui circa quattrocento milioni nella fascia di età 5-19 anni. Inoltre, nonostante sia una condizione in larga parte prevenibile, l’obesità è causa diretta di circa cinque milioni di decessi all’anno. Dal punto di vista finanziario, poi, il costo di questa vera e propria pandemia dimenticata è oggi stimabile in 3.000 miliardi di dollari all’anno, cifra che potrebbe arrivare presto, secondo uno studio pubblicato dal British Medical Journal, a 4.300 miliardi di dollari.

Un fallimento sociale su scala planetaria dunque, come è stato definito da The Lancet. Non solo. Un fallimento che rischia di protrarsi per decenni, nonostante il Covid abbia dato inconfutabile evidenza numerica dell’importanza della prevenzione di malattie che influiscono sul sistema cardiovascolare e respiratorio. Come ha avuto modo di affermare il direttore generale del WHO Tedros Ghebreyesus, “la pandemia ha evidenziato il grave pericolo delle NCD e ha segnalato l’urgente necessità di politiche e investimenti di sanità pubblica più forti per prevenirle. Esortiamo i leader mondiali a livello pubblico e privato ad adottare misure aggressive per prevenire le malattie non trasmissibili. Meno malattie non trasmissibili avrebbero significato meno morti durante la pandemia”.

Nonostante l’enfasi che le autorità internazionali danno al tema, le risorse dedicate alla prevenzione delle NCD in generale e dell’obesità in particolare sono ancora limitate: raccolgono complessivamente il 2% degli investimenti internazionali nel settore sanitario. A questo proposito, una ricerca del 2023 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, WHO) evidenzia che circa due terzi dei paesi del mondo hanno applicato varie forme di tassazione su cibi e bevande non salutari. Tuttavia, queste entrate fiscali (che, secondo l’OECD, farebbero risparmiare sei dollari per ogni dollaro investito), non solo non sono state reinvestite in programmi per la prevenzione, ma non sono nemmeno risultate particolarmente efficaci nel garantire un duraturo cambiamento di abitudini. Così come non sembrano avere prodotto risultati apprezzabili i sussidi all’acquisto di cibo più nutriente, come ad esempio quelli del Supplemental Nutrition Assistance Program (SNAP), lanciato più di dieci anni fa dal Department of Agriculture degli Usa. Sostenuto da circa 100 miliardi di dollari all’anno di finanziamenti federali, lo SNAP ha sì ridotto la cosiddetta insicurezza alimentare(intesa come difficoltà di accesso al cibo sano e nutriente), ma non sembra abbia avuto particolari effetti sulle abitudini alimentari di lungo termine degli oltre sessanta milioni di partecipanti.

Considerato che la grande maggioranza delle NCD sono causate da comportamenti nocivi come sedentarietà, cattiva alimentazione e fumo, si può quindi dedurre che un risoluto cambio di abitudini a livello collettivo rimanga il fattore chiave per affrontare le patologie non trasmissibili e in particolare l’obesità. Uno sforzo che, da un lato, non può ovviamente prescindere dalla partecipazione del legislatore, che dovrebbe limitare la produzione di alimenti a scarso valore nutritivo o favorire il repurposing dell’industria del tabacco. Ma che, dall’altro, non dovrebbe prevedere nemmeno il ricorso a ‘scorciatoie’ come quelle offerte da alcuni recenti prodotti farmaceutici per la riduzione dello stimolo dell’appetito. Come sostengono i ricercatori dell’università di Harvard, infatti, l’appetito è uno stimolo naturale e gestibile anche attraverso l’assunzione di cibo nutriente. Inoltre, secondo alcuni studi molti di questi ‘rimedi’ non rappresentano una soluzione duratura, devono essere assunti a vita e hanno un prezzo spesso superiore a 1.000 dollari al mese. Un quadro non ideale dunque, ulteriormente complicato dalle attività di lobbying del settore farmaceutico che, oltre alla tradizionale influenza sul settore medico e su quello della formazione, hanno fatto sì che il costo di tali medicine sia sostenuto in molti stati dalle casse pubbliche, drenando così ingenti risorse che invece potrebbero essere destinate ad altre priorità globali.

Tra queste, l’accesso al cibo. Soprattutto a quello sano, bene sempre più ‘a premio’ visto lo spazio globale per la coltivazione di vegetali, passato da 0,45 ettari pro capite nel 1961 all’attuale 0,21, e l’esigua quantità di terra coltivabile a livello globale dedicata a frutta (3,8%) e verdura (3,3%), alimenti fondamentali nella prevenzione di varie malattie. Inoltre, l’omogeneizzazione delle catene alimentari – con la produzione di cibi pronti per il consumo – è un fenomeno che ha colpito anche (se non soprattutto) i paesi a medio-basso reddito (LMIC), rendendo l’accesso ad una dieta equilibrata un problema sempre più grave per un’ampia fascia di popolazione. Ciò significa che le popolazioni dei LMCI – e soprattutto i loro bambini, sovrappeso e al tempo stesso malnutriti – sono sempre più a rischio di contrarre una patologia non trasmissibile, dal momento che assumono un quantitativo a volte sufficiente di calorie ma non abbastanza nutriente per una crescita sana. Secondo stime delle Nazioni Unite, circa due miliardi di persone non hanno accesso a cibo sano e nutriente. Come diceva Ippocrate, “fa che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo”.

L’articolo riflette unicamente le posizioni personali dell’autore

Responsabile delle analisi geopolitiche per Intesa Sanpaolo. Laureato all’Università di Milano in Scienze Politiche, ha conseguito un Master in Environmental Management presso il Joint Research Centre della Commissione Europea.

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