Lea Baroudi è fondatrice di March Lebanon e membro del Mediterranean Women Mediators Network (MWMN)
Il Medio Oriente è in fiamme, la guerra è tornata in Libano, ma questo si aggiunge, alle molte sfide già esistenti nel vostro Paese. Com’è la situazione ora? Può dirci qual è la sua prospettiva sull’attuale situazione in Libano?
Come sapete, è in corso una guerra che deve essere fermata. Ma ciò che si tende a trascurare sono anche i conflitti interni che si stanno verificando nel Paese: conflitti che, come sempre in Libano, sono di natura settaria e legati al fatto che le comunità del Paese non si fidano l’una dell’altra. Non è stato costruito nel tempo un vero contratto sociale basato sulla fiducia reciproca e sul rispetto delle nostre diversità. Così, le diverse comunità hanno sempre paura che l’altra voglia prevaricarle E questa paura, in fin dei conti, a causa di tutte le ingerenze geopolitiche che si sono verificate, è sensata e non dovremmo ignorarla.
Il problema è che continuiamo a rimandare questa verità e il processo di riconciliazione, nascondendoci dietro a forze esterne, e ogni comunità cerca di imporre la propria volontà all’altra. Non si può costruire il Paese su questa base, vietando alle persone di affrontare ciò che le preoccupa e le spaventa davvero.
Quello che vedo in Libano, e che vedo nei conflitti di tutto il mondo, è che le persone in realtà non si odiano veramente. Sono piuttosto convinte che siano gli altri a non apprezzarle o addirittura a odiarle. E’ necessario affrontare questa questione affinché le diversità del nostro Paese si trasformino in punti di forza e non di debolezza.
Non credo che il problema principale tra le diverse comunità libanesi abbia a che fare con la guerra con Israele. ,. Se fossimo più uniti riusciremmo a proteggerci da qualsiasi forza esterna.
Il mio timore oggi è che, anche se si spera che la guerra finisca, siamo una società disintegrata e dovremmo avere il coraggio e l’empatia di ascoltarci l’un l’altro onestamente, con l’idea di cercare di risolvere questa situazione. E invece, quello che tutti cercano di fare è segnare punti, secondo una logica per cui qualcuno deve vincere e qualcuno deve perdere. Non è così che si costruisce il Paese.
Se non abbiamo questa consapevolezza collettiva, se non capiamo di dover fare un passo indietro e sforzarci di ascoltare e costruire la fiducia per risolvere i nostri problemi, avremo davanti una strada complicata. E credo che questo non valga solo per il Libano, ma per la maggior parte dei Paesi del Medio Oriente e anche oltre. Perché il mondo sta diventando sempre più polarizzato: un mondo in cui si tenta sempre di segnare punti l’uno contro l’altro, invece di cercare un accordo o un’intesa.
Questo significa in un certo senso che dobbiamo affrontare le cause alla radice..
Sì. E le cause alla radice di tutta la situazione sono, in sintesi, la paura e la sfiducia, secondo me.
Quando si tratta di affrontare le cause profonde, di costruire o ricostruire la coesione sociale , le iniziative dal basso possono davvero svolgere un ruolo chiave. Può dirci qualcosa di più sul ruolo delle iniziative dal basso e della società civile ma anche sul suo lavoro?
Le iniziative dal basso, in fin dei conti, sono iniziative con le persone che compongono un Paese o una nazione, provenienti da comunità diverse, e credo che queste siano in realtà la base di tutto. Di solito, quando si vuole costruire una casa solida, bisogna partire dalla base, non dal tetto. E perché l’iniziativa dal basso è importante? Perché se si lavora sulla base, il vertice non sarà mai in grado di manipolarla.
Ho visto l’impatto del lavoro portato avanti con iniziative di base, anche con i gruppi percepiti come i più estremi, laddove si pensa sia impossibile per queste persone capirsi a vicenda o semplicemente coesistere. Ho lavorato nel nord del Libano, a Tripoli, con giovani che hanno partecipato alla violenza settaria tra alawiti e sunniti, ma anche che sono stati coinvolti in gruppi estremisti all’estero, che hanno combattuto con l’ISIS o con il Fronte Al Nusra in Siria o dall’altra parte, che hanno attraversato il confine per combattere in Iraq o in Afghanistan.
Anche con persone manipolate a pensare in modo ideologico, siamo riusciti a creare un gruppo e a far capire loro che le nostre differenze non significano che dobbiamo eliminarci a vicenda. Il programma di Tripoli che ho promosso– iniziato con uno spettacolo teatrale che univa ex combattenti per recitare insieme in un’opera ispirata alla loro vita – ha funzionato non solo per le molteplici attività di supporto psicologico, formazione, gestione della rabbia, sviluppo di competenze comportamentali e tecniche o perché cerca di affrontare tutte le cause profonde del conflitto e l’idea di emarginazione o di oppressione percepita dalle vittime.
Ciò che ha funzionato è che, per la prima volta, queste persone sono state ascoltate senza giudizio. Li abbiamo ascoltati, compresi, fatti sentire al sicuro nella loro identità. Abbiamo permesso loro di “umanizzarsi” a vicenda. Il conflitto è un processo emotivo, non logico: coloro che lo istigano lo fanno per interessi, risorse, denaro, potere, ma le persone poi effettivamente coinvolte lo fanno per bisogni emotivi. Il conflitto è irrazionale e va affrontato con emozioni alternative. Bisogna dare alle persone la sensazione di essere importanti, di appartenere a qualcosa, di essere ascoltate. Bisogna dar loro la sensazione che contino, rafforzarle.
Il nostro lavoro a Tripoli, che ha coinvolto finora oltre 500 ex combattenti – che hanno combattuto in Libano, in una guerra settaria o all’estero e che hanno ora trasformato la loro vita divenendo attivisti o attori del cambiamento – è stato un banco di prova per dimostrare che, anche lavorando con le persone che etichettiamo come le più estremiste, si può avere successo se si lavora nel modo giusto. C’è speranza, dunque, per l’umanità. Il problema sta nel nostro approccio.
Il problema riguarda anche noi mediatori e costruttori di pace, perché penso sia molto difficile abbandonare i pregiudizi. Abbiamo l’idea sbagliata che l’imparzialità significhi distacco. Invece, essere un mediatore significa costruire fiducia attraverso connessioni emotive profonde. E per farlo, non si può essere imparziali e indifferenti. La fiducia è ciò che costruisce o distrugge tutto.I mediatori sono quindi le persone che hanno la missione di costruire la fiducia, ma credo che nella maggior parte dei casi questo aspetto venga dimenticato.
Ancora una volta penso che lei sia un grande esempio di come la mediazione possa concretamente lavorare a livello di comunità, costruendo coesione sociale e mantenendo vivo il dialogo in un mondo polarizzato. Non si tratta solo di gestire i conflitti, ma di creare le premesse per la pace, di prevenire i conflitti, di affrontarne le cause profonde. Come è stato per lei, come donna, lavorare in questo campo?
Ho esempi di centinaia di storie che provano che tutto ciò che mi era stato detto prima – “sei una donna, sei una donna cristiana, lavorerai con combattenti duri ed estremisti, quindi sei un’ingenua, non funzionerà, ti uccideranno, devi essere un uomo” – si sia rivelato sbagliato. Anche tutti i gruppi con cui lavoro oggi mi dicono che se fossi stato un uomo non avrebbe funzionato.
Le donne in questi spazi non solo sono necessarie perché è importante avere donne e sono brave quanto gli uomini, ma penso che in questo campo possano fare molto di più. Perché? Ho molte interpretazioni in merito, ma credo che innanzitutto sia perché storicamente tutti i conflitti sono stati creati dagli uomini, sono stati gli uomini a fronteggiarsi gli uni contro gli altri.
Pertanto, l’arrivo di una donna crea molta più fiducia perché non è vista come una rivale. Inoltre, una donna tende ad avere una visione più empatica, ad ascoltare di più, a creare più connessioni emotive. Tutto si fonda su queste connessioni umane. Poiché i conflitti sono per lo più creati e gestiti da uomini, penso che gli uomini si sentano molto più a loro agio a lavorare con le donne, a mostrare loro le proprie debolezze, e le donne possono essere molto più assertive in certe situazioni perché non si crea una battaglia di ego. Le viene concesso uno spazio maggiore perché non è minacciosa e ispira più fiducia.
A causa del contesto storico dei conflitti, penso che le donne abbiano un ruolo enorme nella mediazione, e debbano ricoprire questo ruolo non solo perché rappresentano il 50% della popolazione. Piuttosto perché nel mondo della costruzione della pace e della mediazione a mio avviso le donne hanno capacità molto maggiori.
Questo mi porta alla mia ultima domanda. Come possiamo valorizzare il ruolo delle donne e, visto che lei è membro del MWMN, quale ruolo possono svolgere le reti in questo senso?
Penso che il miglior ruolo dei network sia mostrare concretamente ciò che le donne possono fare in questo campo. Non credo che il loro compito sia semplicemente lamentare la scarsa presenza femminile, perché chi decide chi saranno i mediatori di alto livello che andranno sul campo non è mai stato personalmente coinvolto nel conflitto e nella mediazione per capire cosa serva veramente.
Penso ci sia un’idea sbagliata dovuta alla mancanza di conoscenza di ciò che è necessario sul campo, di come si creano i conflitti e di cosa dobbiamo fare per affrontarne le cause profonde i. Invece di fare una lobby con uno spirito all’insegna del “noi contro loro” o di ripetere che “le donne devono essere presenti perché non ce ne sono abbastanza”, le reti sono in grado di mostrare praticamente ciò che le donne stanno facendo e quanto stanno ottenendo proprio in quanto donne. Questo dovebbe permettere a chi prende decisioni di capire la necessità del loro coinvolgimento.
Dobbiamo amplificare e diffondere maggiormente i risultati incredibili che le donne stanno ottenendo sul campo nella risoluzione dei conflitti e nel lavoro di mediazione. Non vedo un lavoro approfondito di mediazione e riconciliazione, ed è per questo che riemergono tensioni in un mondo sempre più polarizzato, in cui c’è sempre più paura dell’altro e quindi sempre meno fiducia reciproca.