Il conflitto israelo-palestinese è un unicum : le parole che lo descrivono dovrebbero esserne il riflesso

Una prima avvertenza, di natura storica. Israele non è nato nel peccato; non è stato il rifugio dal razzismo antisemita fino all’aberrazione della Shoah. Né è uno stato “colonialista” nel senso classico dell’Europa e della sue conquiste coloniali in Africa o in Asia e dello schiavismo imposto alle genti indigene. Gli ebrei hanno vissuto storicamente un legame profondo, emotivo, culturale, identitario e anche fisico con quel lembo minuscolo di terra detto Israele. Lo stato di Israele nella contemporaneità è stato creato legalmente attraverso il piano di spartizione votato dalle Nazioni Unite nel 1947 e la guerra di indipendenza contro gli eserciti dei paesi arabi coalizzati che rigettarono tale decisione. Giustizia – se il termine ha un senso verace – dovrebbe consentire a un popolo disperso e per secoli perseguitato di vivere in pace e in sicurezza una sua esistenza nazionale legittima su quel piccolo pezzo di terra.

Una seconda particolarità: Israele è vissuto sin dalla nascita in uno stato permanente di guerra guerreggiata interrotto da periodi di tregua, in una ostilità atavica del mondo arabo circostante. La non esistenza di uno stato palestinese riflette certo una “colpa” di Israele, ma anche la responsabilità del mondo arabo, delle leadership palestinesi e della comunità internazionale.

Una terza cautela attiene al principio di realtà. Gli israeliani non vivono e non hanno mai vissuto in pace nel quotidiano. Soffrono di un’ostilità che ha assunto storicamente le forme della guerra e quelle infami del terrorismo. L’attuale, aspro dibattito sulla questione se Israele stia commettendo crimini contro l’umanità o persino genocidio trascura il fatto che se Hamas avesse liberato gli ostaggi nelle sue mani ciò avrebbe da tempo messo fine alla guerra distruttiva in atto e con essa alla devastazione di Gaza e dell’esistenza collettiva dei quel popolo. Israele è sì colpevole delle immani sofferenze imposte ai gazawi, ma su Hamas grava una responsabilità politica delle stesse. Il 7 ottobre 2023 Hamas sapeva che la risposta israeliana sarebbe stata durissima ed ha scientemente e cinicamente abbandonato ad essa la popolazione della striscia. Rifiuta tuttora di liberare gli ostaggi sopravvissuti, fornendo così ragioni all’azione bellica così devastante di Israele. 22 stati membri della Lega Araba hanno riconosciuto questa realtà chiedendo nel marzo scorso il disarmo di Hamas.

Un quarto motivo di preoccupazione concerne gli appelli in Occidente al boicottaggio degli israeliani in quanto israeliani, l’ostracismo talora vistoso e irritante anche in campo culturale e accademico di istituzioni israeliane. Ciò equivale a razzismo tout court. Sotto questo aspetto così come altri la critica a Israele è pericolosamente affine all’antisemitismo. Vi è spesso nella retorica corrente uno slittamento lessicale e filosofico nel vieto stereotipo di vittime e carnefici. Ciò traduce una concezione essenzialista della storia umana per cui gli israeliani di oggi, tutti indistintamente, un che di collettivo, un popolo malato nella sua interezza metafisica, siano i figli, i nipoti, gli eredi degli ebrei di 80 anni fa, vittime dello sterminio di massa e tramutati oggi in carnefici. È una falsità evidente, come dimostra il dibattito sofferto che divide la società israeliana tra correnti d’opinione democratica e altre ad esso opposte di natura integralista e autoritaria, nonché lo strumento facile di un meccanismo autoassolutorio per l’Europa colpevole per secoli dell’antigiudaismo cristiano e del razzismo antisemita. Un meccanismo che abbiamo visto operare distintamente  soprattutto intorno alla Giornata della Memoria negli ultimi due anni, ma che ricorre vistosamente in articoli, sondaggi d’opinione, manifestazioni pubbliche.

Quale un atteggiamento costruttivo del resto del mondo? Le masse di israeliani che combattono per la loro democrazia e contro il governo bellicista dovrebbero essere sostenute, non boicottate. Allo stesso modo, i palestinesi che richiedono un’Autorità palestinese riformata al posto di Hamas dovrebbero essere sostenuti da Israele e dal resto del mondo. Gaza deve essere ricostruita per creare uno stato palestinese sostenibile che coabiti in buona convivenza con Israele. Se il governo Netanyahu insegue l’occupazione permanente di Gaza e l’annessione de facto di parti rilevanti del West Bank, le sanzioni potrebbero diventare una risposta adeguata.

Il trauma di questi eventi funesti rivelerà alla coscienza di Israele come sia illusoria l’opinione che il conflitto si possa risolvere senza porre fine all’occupazione e alla convinzione di potere reprimere le aspirazioni palestinesi ad uno stato degno di questo nome. O forse all’opposto indurirà ancor più gli israeliani convinti che i palestinesi tutti siano come Hamas e che uno stato lungo i 500 km del confine con Israele sia un pericolo esiziale. Il trauma ha messo in forse comunque due elementi chiave della coscienza di sé del paese: la fiducia nella forza delle armi e quella nelle sue ragioni ideali riconosciute dall’opinione pubblica mondiale. Ambedue ora fortemente compromesse.

La sicurezza di Israele non può fondarsi sulla mera forza delle armi. Uno stato ebraico non significa di per sé sicurezza fisica per i suoi abitanti né la rimozione della condizione ebraica di precarietà. Anzi, il trauma immane di questi giorni ha acuito il senso di insicurezza, l’angoscia di un paese forte ma anche debole, occupante ma anche assediato. La gravità del trauma, il panico che ne è seguito, le deficienze nel prevenire l’eccidio di Hamas hanno concorso a innescare forme di ritorsione massiccia. La sicurezza esige la sconfitta di Hamas, ma anche la convinzione della popolazione che dall’azione non-violenta e dalla trattativa può scaturire un futuro decente. È quindi interesse preminente di Israele agire per dissociare la società palestinese dalla violenza. Le azioni militari al più agiscono da deterrente nel breve periodo, ma mietono vittime civili, rafforzano la fascinazione per gli estremisti  e isolano Israele dalla comunità delle nazioni per l’eccesso di violenza contro i civili pur nell’esercizio del diritto di autodifesa.

Come affermava anni fa Amos Oz, uno dei più noti scrittori israeliani, la guerra fra Israele e i palestinesi nasconde in realtà due guerre che si combattono simultaneamente: l’una, “ingiusta” è quella mossa dal terrorismo fondamentalista di Hamas contro Israele per dare vita ad uno stato islamico nella Palestina intera; l’altra “giusta” è quella del popolo palestinese che aspira ad uno stato degno di questo nome. Specularmente Israele combatte anche esso due guerre: una, “giusta” per la difesa del suo diritto ad esistere come popolo e come stato; l’altra “ingiusta”, per perpetuare l’occupazione dei territori e le colonie ebraiche ivi insediate.

Il principio cui dovremmo ispirarci in queste drammatiche circostanze è quello della “doppia lealtà”: invece di attribuire colpe, di infliggere punizioni, il compito che ci spetta è quello di offrire ponti, spingere le parti in lotta al dialogo, riprendere la logica degli accordi di Oslo del 1993 quando il riconoscimento reciproco dei diritti aveva dischiuso uno spiraglio di speranza: il conciliare il diritto alla pace a e alla sicurezza per Israele con quello ad uno stato indipendente per i palestinesi. Soprattutto, è essenziale, come impegno della società civile in sostegno “dal basso” all’attivismo della diplomazia “dall’alto”, affermare l’illiceità della violenza contro i civili, da una parte e dall’altra; rigettare la disumanizzazione del “nemico”; riconoscere pur con fatica le ragioni dell’altro.

Economista, è stato direttore Studi e Relazioni internazionali della Banca d’Italia. È membro del Comitato direttivo di Jcall, movimento d’opinione di ebrei europei che sostiene una soluzione di «due Stati per due popoli» per il conflitto fra Israele e Palestina. Coordina l’Osservatorio Mediterraneo e Medio Oriente del Cespi.

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