Biden alla prova del Summit delle democrazie

La Russia di Putin, sembra, sta preparando un attacco all’Ucraina. La Cina di Xi, sembra, sta preparando un attacco a Taiwan. L’America di Biden sta per presiedere un “vertice per la democrazia”, idea forza della politica estera della nuova amministrazione. Ma è la risposta giusta? C’è da dubitarne.

In linea di principio, tutti i regimi autoritari sono ugualmente esclusi dall’evento che si apre giovedì. Ma alcuni sono più uguali degli altri, per dirla con Orwell. Sono più uguali degli altri in particolare le due dette repubbliche, russa e popolare cinese, nei confronti delle quali la riunione (virtuale) intende costituire se non un’alleanza strategica, una qualche coalizione messa assieme chiedendo il green pass della buona condotta democratica  – almeno nella forma – ai capi di stato o di governo invitati a collegarsi.

L’ambivalenza del Vertice, tra geopolitica e valori

L’iniziativa è così caratterizzata da un’ambivalenza fra intenti geopolitici e motivazioni valoriali, con l’economia in mezzo, in collocazione incerta. Sennonché, mentre la geopolitica si fonda sugli Stati divisi da confini, il confine fra democrazia e il suo opposto, passa spesso all’interno degli Stati. Compreso quello americano: non a caso lo stesso Dipartimento di Stato di Washington indica come spirito del Summit quello di “rinnovare la democrazia negli Stati Uniti e nel mondo”, per poi indicare i suoi tre scopi: “difenderci dall’autoritarismo, combattere la corruzione e promuovere diritti dell’uomo” (non l’ipotesi di arginare le interferenze digitali, pur sempre una minaccia crescente nel tempo attuale).

Mosca e Pechino, invece, sfidano l’Occidente e il Sudest asiatico proprio con una questione di confini, affermando che l’Ucraina e l’isola di Taiwan sono storicamente parte dei loro territori rispettivi, o almeno delle loro sfere di influenza, a prescindere dalle preferenze della (larga) maggioranza delle popolazioni interessate – eventualmente manipolabili ex post, come fatto in Crimea e a Hong Kong.

Il rischio è che l’ambivalenza scivoli nell’ambiguità: esso è reso manifesto dall’elenco degli inviti (centodieci, salvo correzioni dell’ultimo momento), che non a caso ha sollevato molte critiche da parte degli osservatori per le incongruenze e le contraddizioni inerenti ad almeno una ventina di Paesi. Le perplessità sollevate sono state poi nascoste sotto diplomatici silenzi sia in Asia che in Europa (quest’ultima imbarazzata dai due pesi e due misure applicati a Polonia e Ungheria, tipico esempio di interferenza geopolitica nel metro valoriale).

Non entriamo qui nel dettaglio delle dette critiche e perplessità non solo per brevità,  ma anche per utilità. Cosa fatta capo ha. A questo punto si partecipa senz’altro all’incontro, come farà il nostro presidente del Consiglio, collegandosi da Palazzo Chigi, e come faranno gli altri leader europei, così da assicurare a Joe Biden il supporto di cui ha bisogno nel difficile, difficilissimo momento – e ciò nel nostro condiviso interesse.

Multilateralismo e cooperazione allargata

Ma la Casa Bianca chiama questo il “primo Vertice per la democrazia”. Si suggerisce qui di correggere il tiro prima di un secondo capitolo. Come? Valorizzando gli strumenti utili ai fini geopolitici, come la Nato e una rafforzata cooperazione di politica estera e di sicurezza nell’Unione europea (per entrambe le quali, si sottolinea che un core group a tre fra Italia, Francia e Germania potrebbe essere decisivo) e gli strumenti, come l’Osce (l’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), storicamente adatti alla difesa di una sicurezza comprensiva dello stato di diritto e del rispetto delle minoranze (immigrati inclusi) oltre che delle libere elezioni.

Questi dovrebbero essere completati da una terza categoria di strumenti, sia istituzionali come l’Ocse (l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sia in forma di “gruppo” come il G7, aventi principalmente capacità e finalità economiche, con l’esito di dare un ruolo coerente ed efficace alle loro materie di intervento fra geopolitica e valori.

Insomma, si tratta di puntare su corpi multilaterali, caratterizzati da composizioni definite (anche se eventualmente completabili con selezionati inviti ad hoc, come è stato fatto in passato, per esempio al G7). In questo senso, il multilateralismo serve principalmente le utilità occidentali.

Ma un tale approccio apre anche la via a contesti più ampi, così da includere le controparti geopolitiche con cui si è in tensione, dunque suscettibili di diventare sedi e veicoli di distensione. La casistica è ricca, in quanto comprende “gruppi” più numerosi come il G20 – non buttando alle ortiche, malgrado le delusioni dell’ottobre scorso, il lavoro fatto dal governo italiano in questo suo anno di presidenza – e come le istituzioni formali, quali il Fondo monetario e la Banca mondiale; per non dire delle conferenze che potremmo chiamare “di scopo”, come la COP26.

Ne potrebbe trarre vantaggio anche l’intento di scongiurare una disastrosa manu militari ai confini dell’Ucraina e nei canali marittimi intorno a Taiwan.

Foto di copertina EPA/JIM LO SCALZO

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