Non potrà durare a lungo così. Le operazioni militari israeliane a Gaza, riprese dopo la rottura della tregua, hanno superato ogni limite. Da ultimo, sconvolge le coscienze di tutti la notizia della strage dei nove figli della pediatra palestinese, uccisi a casa loro da una bomba israeliana. L’assedio alla Striscia e le enormi perdite di vite umane tra i civili palestinesi generano disorientamento e rabbia anche in Israele, non solo tra le file dell’opposizione. Cresce la frustrazione dell’amministrazione americana, si raffreddano i rapporti personali tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu. L’Europa cerca una via e si divide sull’ipotesi di revisione/sospensione dell’accordo Ue-Israele. A rendere il quadro ancora più cupo, si è aggiunto l’omicidio a Washington dei due giovani addetti dell’ambasciata d’Israele, vittime dell’odio anti-semita. Il terrorista assassino inneggiava alla Palestina libera, ma non è con il terrorismo che si favorisce la causa palestinese. La storia, non solo recente, dovrebbe averlo insegnato.
Una presa di posizione a nome dei diritti umani
Il governo israeliano, sempre più condizionato dall’estrema destra messianica, naviga a vista a Gaza. Poche ore prima dell’attentato di Washington, aveva rilanciato una proposta di tregua temporanea in cambio della liberazione degli ostaggi, della smilitarizzazione della Striscia e dell’esilio della dirigenza di Hamas. Ma chi da quasi venti mesi tiene ancora prigionieri i pochi ostaggi ancora vivi, o i loro cadaveri, non considera la loro liberazione, né di alleviare le tremende condizioni dei civili palestinesi, condannati a fare da scudo impotente ai terroristi. Le forze israeliane martellano Gaza in maniera spaventosa, il conto delle vittime innocenti aumenta tragicamente. Dove non arrivano le bombe, a decimare un popolo allo stremo arriva la fame.
Non c’è antisemitismo nel reclamare una tregua e la ripresa immediata nella distribuzione degli aiuti, essenziali per la sopravvivenza. La solidarietà con le vittime è d’obbligo anche qui e per molti, anche amici di Israele, non è possibile voltarsi dall’altra parte davanti a una tragedia di queste dimensioni. Questo è il piano umanitario, dove è facile indicare come le cose dovrebbero muoversi.
Il versante politico: pressioni da Washington
È il versante politico a essere imperscrutabile. Nei giorni scorsi chi aveva messo insieme la visita di Trump in Arabia Saudita, Qatar e Emirati Arabi con l’esclusione clamorosa di una tappa in Israele; l’apertura alla Siria, graziata con la cancellazione delle sanzioni e con l’incontro del presidente degli Stati Uniti con l’ex jihadista al-Shaara, nuovo uomo forte di Damasco; la ripresa dei colloqui con l’Iran sul nucleare, aveva notato come queste mosse americane fossero come dita negli occhi di Netanyahu. Pur nella imprevedibilità e nella scarsa linearità delle scelte di Trump, si poteva pensare all’avvio di una possibile pressione da Washington sul governo israeliano per fermare la guerra a Gaza e riaprire la via al negoziato, per quanto ancora molto difficile, anche con i Paesi arabi sunniti.
Non è andata così. I fatti hanno ridotto l’ipotesi a illazione. Gli Stati Uniti, i soli a poter esercitare una influenza moderatrice – sempre più necessaria – sul primo ministro israeliano, non danno segni di voler prendere l’iniziativa con Gerusalemme. Eppure, gli argomenti non mancherebbero, nell’interesse stesso di Israele. Le convulsioni in seno al governo di Netanyahu, lo scontro senza precedenti con le forze armate, il disorientamento crescente dell’opinione pubblica per la guerra infinita e non risolutiva – la più lunga della storia di Israele – in teoria potrebbero indurre a valutare nuove opzioni. Una spinta decisa dal maggiore alleato, se necessario azionando la leva degli aiuti militari, potrebbe favorire una svolta. Ma oltre oceano non si intravedono movimenti.
Ora, dopo il crudele assassinio di mercoledì a due passi dalla Casa Bianca e la commozione per i due ragazzi uccisi alla vigilia del loro matrimonio, sarà ancora più difficile immaginare che Trump alzi il telefono e convinca Netanyahu a cambiare registro. Oltre a stroncare la vita di due innocenti, l’odioso crimine di Washington fa stringere i ranghi intorno al governo israeliano e frena ogni eventuale impulso di Trump di premere sull’alleato.
Intanto, il terrorismo antisemita, pur se condannato con forza, non riduce la compassione e la solidarietà per le migliaia di vittime civili palestinesi a Gaza, il che non deve sorprenderci: il prezzo della guerra è sempre più insopportabile, al pari dell’assoluta, perdurante incertezza sul futuro della Striscia e su chi dovrà avere la responsabilità di ricostruirla e governarla.
Presidente dell'Istituto Affari Internazionali e presidente del Centro italo-tedesco per il dialogo europeo Villa Vigoni su proposta congiunta dei governi italiano e tedesco. Diplomatico di carriera, ha lavorato alla Direzione degli Affari Economici (1975), all’Ambasciata d’Italia a Brasilia (1978) e all’Ambasciata d’Italia a Bonn (1981). Dal 1984 al 1987 è stato consigliere a Beirut. Nel 1991 è nominato Primo consigliere a Bruxelles, presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea. Nel 1997 diventa ambasciatore a Sarajevo. Nel 1999 assume la direzione dei Rapporti con il Parlamento e poi del Servizio Stampa alla Farnesina. È Ambasciatore a Brasilia dal 2004, a Berlino dal 2009 e Segretario Generale della Farnesina dal 2012 al 2016.