Una pesante eredità per la Democrazia americana

L’ombra di Donald Trump si allunga sulle prossime elezioni presidenziali – e per il Congresso – negli Stati Uniti. È un’ombra minacciosa, non soltanto per quanto l’ex presidente potrebbe fare se tornasse in carica, ma anche per l’effetto dirompente sugli equilibri politici e istituzionali degli Stati Uniti dei suoi guai con la giustizia, l’ultimo dei quali potrebbe addirittura vederlo escluso dalla corsa per la Casa Bianca.

Le primarie repubblicane finite prima di iniziare?

I sondaggi accreditano l’ex presidente di un vantaggio abissale (fino al 63%) nella corsa alla nomination repubblicana e lo vedono leggermente in vantaggio sul democratico Joe Biden nella sfida di novembre.

L’idea che un candidato alternativo a Trump possa accumulare da una vittoria nelle primarie in Iowa o New Hampshire un tale slancio da superare l’ex presidente sembra così remota da apparire accademica. I sondaggi a livello statale vedono primeggiare Trump ovunque, già a partire dall’Iowa, quasi sempre con distacchi non troppo dissimili dal voto nazionale. Dopo il ‘super martedì’ 5 marzo, quando ben sedici stati selezioneranno i delegati a sostegno dei candidati per la convention repubblicana di Milwaukee a luglio, l’ex presidente dovrebbe quindi aver già risolto la questione nomination.

Dopo la cattiva performance dei candidati appoggiati da Trump alle elezioni di metà mandato del 2022, si è pensato che il Partito Repubblicano si potesse orientare verso figure meno controverse (sebbene non meno radicali), come il governatore della Florida Ron DeSantis, fresco di trionfale riconferma.

Nei mesi successivi è apparso chiaro tuttavia che quest’ipotesi non aveva una solida base. Invece di insistere sulla sua maggiore ‘eleggibilità’ in base al suo record economico e di resistenza alle regolamentazioni anti-Covid (molto impopolari nella destra Usa), DeSantis ha rilanciato su un’agenda tutta incentrata su una feroce battaglia culturale anti-progressista, spesso spostandosi su posizioni più estreme dello stesso Trump su questioni come l’aborto. Lo stesso hanno fatto altri candidati come l’imprenditore Vivek Ramaswamy. Eppure, in due DeSantis e Ramaswamy raccolgono intorno al 15% dell’elettorato conservatore. Chiaramente gli elettori di destra preferiscono l’originale alle copie.

I candidati non-trumpiani (come l’ex vice-presidente Mike Pence) o dichiaratamente anti-trumpiani (come l’ex governatore del New Jersey Chris Christie) alla nomination repubblicana sono note a piè di pagina nel libro delle primarie. L’unica apparente eccezione è la grande speranza dei conservatori tradizionali, l’ex governatrice della South Carolina ed ex ambasciatrice Usa all’Onu (sotto Trump), Nikki Haley. Per quanto magnificata dalla stampa e sostenuta da un numero crescente di ricchi donatori, Haley non è una candidata forte – è anzi molto debole. Dopotutto, langue a un misero 11% nei sondaggi nazionali. In Iowa, da cui dovrebbe partire l’assalto all’ex presidente, oscilla intorno al 16%, ben 35 punti sotto Trump.

L’opposizione fantasma

La stagione delle primarie dei Repubblicani che si aprirà la settimana prossima sembra avere già un esito scontato. Dal momento in cui la nomination sarà sicura, ogni forma di opposizione residuale a Trump in campo conservatore si scioglierà, e tutto il partito e l’elettorato conservatore si stringeranno attorno all’ex presidente, come del resto hanno largamente fatto negli ultimi anni.

Dopo l’elezione del 2020, quando i tentativi dell’ex presidente di invalidare la vittoria di Biden sono culminati nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 da parte di una folla di suoi sostenitori, era frequente imbattersi in Repubblicani che, soprattutto dietro le quinte, contavano sul fatto che Trump fosse finito. L’evidenza in senso contrario però ha cominciato ad accumularsi ben presto.

La notte stessa dell’attacco al Campidoglio, in cui cinque persone erano rimaste uccise, 139 rappresentanti e otto senatori repubblicani si rifiutarono comunque di certificare la vittoria di Biden, senz’altra giustificazione se non quella di mantenere consenso in una base elettorale convinta nonostante l’evidenza contraria che l’elezione fosse stata truccata.

Poco dopo, l’opposizione dei Repubblicani impedì che il secondo impeachment di Trump sfociasse nella sua formale destituzione.

Solo due Repubblicani, entrambi costretti poi a lasciare il partito, hanno successivamente partecipato all’inchiesta della Camera sull’assalto al Campidoglio, conclusasi con la raccomandazione di incriminare l’ex presidente per insurrezione.

E quando le incriminazioni sono arrivate, Trump non ha perso consensi tra i conservatori. Se un effetto c’è stato, al momento sembra più quello di avere galvanizzato la destra, persuasa che Trump sia vittima di incriminazioni motivate politicamente. L’ex presidente, è il caso di ricordare, è indagato sia a livello federale che in Georgia per aver tentato di invalidare l’elezione del 2020, nonché per trasferimento e possesso illegale di documenti secretati (sempre a livello federale) e violato le leggi sul finanziamento elettorale nello stato di New York.

La forza di Trump è la debolezza di Biden

Sicuro o quasi di ottenere la nomination, Trump può guardare con ottimismo a novembre. L’ex presidente resta un candidato estremamente controverso alla luce dei suoi guai giudiziari, della sua retorica sempre più estrema, dei suoi istinti autoritari. Ciò nonostante, ha guadagnato consensi in settori elettorali chiave per i Democratici, come i maschi neri e latini.

La sua carta vincente è l’impopolarità di Biden, che non riesce a scollarsi dal 40% dei conensi. Nonostante l’economia sia cresciuta a ritmi sostenuti e la disoccupazione sia ai minimi storici, il presidente sconta l’effetto dell’inflazione (tornata sotto controllo, ma dai livelli più alti dai primi anni ’80), l’ansia per la perdurante immigrazione, e soprattutto la percezione che sia troppo avanti negli anni per un altro mandato.

Al contrario del 2016, questa volta Trump può contare su un’infrastruttura organizzativa – il cosiddetto Project 2025, creato dal think tank ultraconservatore Heritage Foundation – per mettere in atto un’agenda di governo radicale. Il piano è quello di svuotare l’amministrazione federale di personale di carriera e sostituirlo (almeno nelle posizioni chiave) con persone selezionate sulla base dell’assoluta lealtà a Trump. Il Dipartimento di Giustizia verrebbe così asservito alla Casa Bianca e usato non solo per eliminare le minacce giudiziarie (Trump potrebbe anche auto-graziarsi dai reati federali se fosse già stato condannato) e perseguire gli avversari politici. Non a caso negli Usa anche pensatori di destra parlano di una prossima deriva autoritaria.

Trump ha creato un conflitto epocale tra volontà popolare e diritto

Una seconda presidenza Trump, tuttavia, non è scontata. Biden potrebbe recuperare terreno e sconfiggere l’ex presidente, come ha fatto nel 2020. Un’eventuale condanna in uno dei quattro processi penali potrebbe intaccarne il consenso tra gli indipendenti e anche i repubblicani (un terzo dei quali si dice indisponibile a sostenerlo in questo caso).

Oppure Trump potrebbe essere escluso a priori, se la Corte Suprema dovesse confermare la sentenza con cui la più alta corte del Colorado ha dichiarato Trump ineleggibile perché colpevole di insurrezione.

La Corte Suprema non dovrebbe esprimersi verosimilmente prima di un paio di mesi. Si tratta forse della sentenza più importante – senz’altro la più attesa – della storia degli Stati Uniti. In sostanza i nove giudici – sei conservatori (la metà dei quali nominati dallo stesso Trump) e tre progressisti – si trovano di fronte alla questione se, in una democrazia costituzionale, il giudizio sull’eleggibilità di un cittadino discenda in ultimo dalla legge o dal corpo elettorale.

Qualunque l’esito, una parte dei cittadini sentirà il verdetto come illegittimo, allargando ulteriormente le divisioni nel già ultra-polarizzato elettorato americano.

Legge o politica? Stato di diritto o volontà popolare? La storia degli Stati Uniti (e non solo) è anche il costante tentativo non solo di far convivere le due cose ma di renderle parti complementari di un insieme organico. Oggi sono separate e anzi in conflitto tra loro. Già prima di concludersi tra un anno o cinque, la vicenda politica di Donald Trump ha lasciato una pesante eredità per la democrazia americana.

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