Le vulnerabilità della presidenza Trump

Dalla sua rielezione, Donald Trump ha attraversato una fase che nel lessico politico anglosassone viene definita una winning streak: una sequenza di successi che ha consolidato l’immagine di un presidente politicamente dominante, a prescindere dalle battute d’arresto che pure non sono mancate. A quasi un anno dal suo secondo insediamento, tuttavia, si intravede qualche crepa nell’armatura che la roboante retorica presidenziale della vittoria perpetua può offuscare ma non nascondere del tutto.

Striscia vincente

In politica estera, Trump ha imposto dazi senza incorrere in ritorsioni significative, con l’eccezione della Cina, con cui è stato costretto a un compromesso difficile e incompleto. Ha presieduto a una serie di cessate-il-fuoco che ne hanno rafforzato la reputazione di peace-maker, da Gaza alla guerra tra Israele e Iran, fino a (a sentir lui) conflitti in Africa, nel Caucaso e nel Sudest asiatico. Ha ottenuto che gli europei si facessero carico di una quota molto maggiore della difesa dell’Ucraina, pur fallendo finora nel tentativo di raggiungere un accomodamento con una Russia che non arretra da posizioni massimaliste.

È sul piano interno che l’azione di governo di Trump è apparsa più pervasiva. Il presidente ha ridotto l’autorità del Congresso nell’indirizzare la spesa federale; smantellato parti rilevanti dell’amministrazione, traumatizzandone il personale; subordinato alla Casa Bianca agenzie di vigilanza e garanzia concepite come indipendenti. Ha assoggettato il Dipartimento di Giustizia ordinando l’incriminazione di avversari politici e, al contempo, graziato propri sostenitori, inclusi gli insurrezionisti del 6 gennaio 2021.

Ha inoltre esercitato pressioni sui media attraverso cause legali, minacce di revoca delle licenze e tagli ai sussidi; usato la leva dei fondi federali per costringere le università ad allinearsi a un’agenda conservatrice; e intimidito studi legali coinvolti in cause invise all’amministrazione. Ha infine schierato truppe federali in città e stati governati dai Democratici con il pretesto di proteggere gli agenti dell’Agenzia per l’immigrazione (la famigerata Ice) impegnati in rastrellamenti arbitrari, e promesso una stretta sulle ong progressiste in risposta all’omicidio dell’attivista di ultradestra Charlie Kirk, inizialmente attribuito senza prove a gruppi di sinistra.

Nelle ultime settimane, tuttavia, sono emersi segnali che rivelano vulnerabilità latenti della presidenza Trump. Ciò non equivale a dire che Trump sia già un’“anatra zoppa”, come frettolosamente sostenuto da alcuni. Indica piuttosto che il suo potere non è incontrastato e che i margini politici del consenso su cui si fonda si sono, al momento, ristretti piuttosto che ampliati, e che quindi il presidente non è invulnerabile.

Ansie economiche

Le prime crepe riguardano l’economia. L’inflazione, pur contenuta nei dati aggregati, resta elevata su energia e beni alimentari, mantenendo alto il costo della vita. Il problema si aggrava considerando affitti, prezzi delle abitazioni e, in prospettiva, l’assicurazione sanitaria. Il mercato del lavoro si è raffreddato: la disoccupazione (al 4,6%) è al livello più alto degli ultimi quattro anni, le assunzioni rallentano e il governo ha licenziato centinaia di migliaia di funzionari federali. La crescita rimane discreta, ma appare trainata quasi esclusivamente dal boom dell’intelligenza artificiale, settore su cui incombono rischi di sgonfiamento improvviso.

I dazi hanno contribuito in parte a compensare il buco di bilancio prodotto dal taglio delle tasse su compagnie e redditi elevati. Si tratta però di una misura regressiva, che grava soprattutto sui redditi più bassi e rischia nel tempo di frenare l’economia. Non a caso, l’amministrazione ha revocato le tariffe su alcuni beni alimentari, stanziato dodici miliardi di dollari di sussidi agli agricoltori (i più colpiti dalla stretta tariffaria) e pianificato un trasferimento diretto una tantum di duemila dollari alle famiglie. Parallelamente, l’opposizione repubblicana all’estensione dei sussidi sanitari introdotti da Barack Obama ed estesi da Joe Biden porterà al raddoppio o triplicamento dei premi assicurativi, con il rischio che tra i dieci e i dodici milioni rinuncino del tutto alla copertura.

A pesare ulteriormente sull’incertezza è una sfida legale pendente sulla costituzionalità dei dazi di Trump. Se la Corte Suprema dovesse stabilire che il presidente ha ecceduto la propria autorità – come è sembrata orientata durante l’udienza preliminare – l’intera sua agenda economica finirebbe nel limbo.

Sconfitte elettorali

Questo contesto economico aiuta a spiegare la recente sequenza di sconfitte elettorali dei Repubblicani. A inizio novembre, i Democratici hanno superato le attese nelle elezioni per il sindaco di New York; nei governatorati di New Jersey e Virginia (dove hanno conquistato anche la procura statale); in competizioni minori in Mississippi (infrangendo la super maggioranza repubblicana nella legislatura) e Pennsylvania (dove hanno mantenuto la maggioranza nell’alta corte dello stato).

Hanno anche prevalso nettamente nel referendum californiano che consentirà al governatore Gavin Newsom di ridisegnare i distretti elettorali recuperando i cinque seggi alla Camera che il Texas, su impulso di Trump, aveva loro ‘tolto’ con una modifica improvvisa dei collegi. A ciò si è aggiunta la vittoria democratica per il sindaco di Miami, mentre i Repubblicani hanno mantenuto un seggio alla Camera in un distretto ultra-conservatore del Tennessee con margini molto inferiori rispetto al 2024.

Nel loro insieme, questi risultati indicano che i Repubblicani sono meno competitivi quando Trump non è direttamente in gioco e che l’elettorato democratico è fortemente mobilitato contro quella che percepisce come una deriva semiautoritaria del governo federale. Segnalano inoltre il malcontento di settori che nel 2024 si erano spostati a destra, in particolare tra maschi latini.

Non sorprende dunque che l’approvazione di Trump ristagni nei bassi quaranta punti percentuali. Il giudizio negativo del pubblico si concentra soprattutto sull’economia, ma riguarda anche l’immigrazione: pur esistendo consenso per politiche restrittive, manca un sostegno ampio ai rastrellamenti arbitrari condotti da agenti di Ice mascherati e senza insegne di riconoscimento.

Mal di pancia conservatori

Il malcontento inizia a emergere anche all’interno di un Partito Repubblicano che finora è stato una docile cassa di risonanza dell’amministrazione. Diversi deputati hanno criticato la gestione del lungo shutdown da parte dello Speaker Mike Johnson, soprattutto per il rifiuto di convocare la Camera in seduta. Altri temono le ricadute politiche del rialzo dei premi assicurativi in vista delle elezioni di metà mandato del prossimo anno. In Indiana, i Repubblicani si sono addirittura rifiutati di seguire l’ordine presidenziale di ridisegnare i distretti elettorali in violazione delle regole statali, in un raro segnale di autonomia e integrità.

Più rilevanti sono le prime fratture fra Trump e il movimento Maga. Una fonte di insofferenza è una politica estera percepita come poco America First, troppo orientata a favorire interessi familiari e accordi con le dinastie arabe del Golfo ed eccessivamente sbilanciata a favore di Israele – il che peraltro ha dato modo all’ala antisemita della destra americana, di cui il giovane Nick Fuentes è l’esponente più in vista, di collegare le diffuse critiche a Israele a un’ideologia apertamente razzista. Un’altra è il rinnovato interventismo militare, prima contro l’Iran e ora potenzialmente verso il Venezuela.

Certo, queste divisioni riguardano più commentatori che la base, che ancora apprezza l’approccio estorsivo di Trump alla politica estera. La rottura politicamente significativa si è prodotta attorno al tentativo di Trump di ostacolare il rilascio del dossier Epstein, il finanziere pedofilo morto apparentemente suicida in carcere nel 2018 e che è diventato nel tempo fonte inesauribile di teorie cospirazioniste dell’ultra-destra (anche se, bisogna ammettere, il caso presenta una moltitudine di lati oscuri). Le pressioni esercitate dalla Casa Bianca per impedirne la pubblicazione sono degenerate in un conflitto aperto con la rappresentante Marjorie Taylor Greene, fino a quel momento una delle più fedeli sostenitrici del presidente. Trump l’ha pubblicamente sconfessata, accusandola di tradimento.

Sebbene Greene abbia annunciato che lascerà il Congresso a gennaio, citando il clima di pressioni e minacce ricevute, la sua opposizione – insieme a quella di un ristretto gruppo di deputati Maga – ha avuto un effetto dirompente. Per la prima volta, Trump è stato costretto a fare marcia indietro su una questione simbolicamente centrale per la sua base. Il voto sul rilascio del dossier Epstein è così passato alla Camera con una sola voce contraria.

È stata la prima volta che la presa carismatica di Trump sulla sua base sia apparsa scalfita. Potrebbe certo trattarsi di un episodio isolato, e Trump resta molto potente. Ma il presidente non può più dare per scontato che il suo elettorato lo seguirebbe comunque, anche – per riprendere una sua celebre iperbole – se sparasse a qualcuno sulla Quinta Avenue.

Coordinatore delle ricerche e responsabile del programma Attori globali dell’Istituto Affari Internazionali. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle relazioni transatlantiche, in particolare sulle politiche di Stati Uniti ed Europa nel vicinato europeo. Di recente ha pubblicato un libro sul ruolo dell’Europa nella crisi nucleare iraniana,“Europe and Iran’s Nuclear Crisis. Lead Groups and EU Foreign Policy-Making” (Palgrave Macmillan, 2018).

Ultime pubblicazioni