L’Ue di vdL, un porcospino dagli aculei spuntati

Lo scorso 10 settembre, Ursula von der Leyen ha tenuto il suo consueto discorso sullo Stato dell’Unione (SOTEU nel gergo bruxellese). La congiuntura internazionale, scossa dalle due guerre in Ucraina e a Gaza e dalla postura dell’amministrazione americana, unita alla fragilità del contesto politico europeo, lo hanno reso il discorso più difficile pronunciato (almeno finora) da von der Leyen, che ha iniziato il suo secondo mandato a dicembre scorso.

Sebbene gli aspetti economici abbiano occupato una buona parte del suo intervento e abbiano avuto strascichi nella Conferenza di alto livello sulla competitività aperta da von der Leyen e Mario Draghi la settimana successiva, sono stati i temi politici quelli più commentati e che hanno definito il tono e la visione della Presidente della Commissione.

Volendoli riassumere, la Presidente ha ribadito una visione chiara sull’Ucraina, ha presentato una linea risoluta seppur parziale sulla difesa, ha annunciato un’inversione di marcia su Israele e Palestina, e ha tentato di difendere l’indifendibile sull’accordo sui dazi con gli Stati Uniti.

Il discorso è iniziato con parole gravi. Ha parlato di un’Europa “in lotta” per la difesa dei nostri valori e delle nostre democrazie. Sappiamo che i valori cosmopoliti liberali sui quali si fonda il progetto europeo sono sempre più contestati, non solo da una pletora di attori esterni al mondo occidentale, che li presentano come strumenti di dominio occidentale e di preservazione degli squilibri economici. Vengono messi in discussione anche all’interno del gruppo di paesi finora considerati difensori di questo sistema, come stiamo sperimentando con la seconda amministrazione Trump e come abbiamo sentito dalle stesse parole del Presidente americano all’Assemblea della Nazioni Unite di fine settembre.

Di conseguenza, von der Leyen ha parlato di un’Europa che sia indipendente per tutelare la nostra difesa e la nostra sicurezza. In effetti, l’errore peggiore che potremmo commettere come europei è rifugiarci nella negazione e continuare a filtrare la realtà internazionale solo attraverso il prisma del nostro idealismo. Non si tratta di abbandonare l’ideale della coesistenza pacifica, ma di ammettere che per realizzarlo è fondamentale identificare le condizioni per la pace nelle circostanze attuali e immaginare misure adeguate per raggiungerle.

Indubbiamente, la minaccia principale che dobbiamo fronteggiare dal 2022 è quella che arriva dall’imperialismo russo, che ha riportato la guerra nel continente europeo attraverso l’invasione militare dell’Ucraina e che minaccia direttamente le democrazie europee con attacchi cyber, propaganda, disinformazione. A questo, secondo von der Leyen, bisogna rispondere aumentando la pressione sulla Russia con sanzioni (è ancora in discussione al Consiglio l’approvazione del 19° pacchetto) e il sostegno militare e finanziario all’Ucraina, anche utilizzando i fondi russi bloccati, e concentrandosi sulla minaccia dei droni (molto pressante anche per le capitali europee, come abbiamo potuto vedere con le azioni disturbo del traffico aereo in Polonia, Romania e Estonia).

Per essere un attore di difesa forte e credibile, von der Leyen ha giustamente richiamato il bisogno di aumentare la spesa per la difesa e gli investimenti in capacità militari congiunte in Europa. Questo non significa aderire a una logica di guerra permanente: è la precondizione per preservare la libertà e la democrazia, gli ideali su cui si fonda il progetto dell’Unione Europea e a cui aspirano molti dei suoi partner.

Naturalmente, affinché le capacità militari diventino uno strumento efficace per ripristinare e preservare la pace, è essenziale una riflessione approfondita sugli obiettivi strategici, un’adeguata costruzione istituzionale e un processo decisionale efficiente. Su questo von der Leyen non ha dato risposte – e nemmeno avrebbe potuto darne, poiché la Commissione ha una competenza limitata nel settore della difesa e gran parte delle decisioni vengono prese all’unanimità dagli Stati membri, a cui spetta l’iniziativa politica.

La Presidente ha anche tentato – tardivamente e di nuovo nei limiti delle competenze della Commissione – di dare una risposta alla carneficina di Gaza e alle proteste sull’operato europeo. Per la prima volta ha usato parole chiare di condanna contro la carestia provocata dal governo di Israele e il soffocamento finanziario dell’Autorità palestinese, che mina la soluzione dei due Stati che l’Unione europea ha sempre sostenuto, almeno a parole. Ha anche puntato il dito sulle responsabilità degli Stati membri, ad esempio quando hanno bloccato la proposta di sospendere la partecipazione di Israele al programma Horizon Europe. Ha quindi annunciato la sospensione dell’aiuto bilaterale a Israele da parte della Commissione e le proposte al Consiglio di sanzionare i ministri estremisti e i coloni violenti, oltre alla sospensione parziale dell’Accordo di associazione per le questioni commerciali.

Von der Leyen ha poi cercato di difendere l’indifendibile, spiegando che l’accordo concluso con Trump sui dazi ha evitato una guerra commerciale con gli Stati Uniti e dato un vantaggio alle aziende europee rispetto ad alcuni competitor che devono affrontare condizioni commerciali più sfavorevoli con Washington. Eppure, l’Ue proprio nel primo mandato di von der Leyen si è dotata di strumenti di protezione e di reazione alle minacce commerciali ed economiche, come lo Strumento anti-coercizione, che avrebbero potuto essere attivati – o comunque minacciati – nel confronto con Trump. Si è scelta invece la strada della quieta accettazione, anche su pressione di alcuni Stati membri come Germania e Italia, nel tentativo di normalizzare una relazione che sembra irrimediabilmente compromessa dall’attitudine dell’amministrazione americana.

Del resto, von der Leyen deve fare i conti con una crescente insicurezza interna: da qui il suo appello alla maggioranza democratica europeista al Parlamento europeo, quella che l’ha rieletta non senza mal di pancia nel 2024 e che è costantemente minacciata da derive interne – come quelle del Partito dei Popolari Europei a favore di partiti di estrema destra sovranista – ed esterne alla coalizione, come le mozioni di censura degli opposti estremismi di destra e di sinistra.

In generale, l’immagine che emerge è quella di un’Europa ripiegata su se stessa, un porcospino dagli aculei poco affilati che tenta di proteggersi, ma che non si dimostra all’altezza delle aspettative dei suoi cittadini, delle ambizioni di alcuni suoi leader e delle minacce dei suoi avversari. Quello che resta è l’impressione che, in una situazione di policrisi come quella che viviamo, avremmo bisogno di ben altra leadership e ben altra visione.

Responsabile del programma Ue, politica e istituzionie responsabile delle relazioni istituzionali dell’Istituto Affari Internazionali. Si occupa di governance dell’Unione europea, aspetti politici e istituzionali della Pesc/Psdc, gestione civile delle crisi, rapporti tra Ue e Nazioni Unite e relazioni Ue-Africa.

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