Non c’è pace per la Banca Centrale Europea

La fiammata inflazionistica sperimentata in seguito all’invasione russa dell’Ucraina — e a alla ripartenza economica post-Covid — ha obbligato la Banca Centrale Europea a modificare in maniera drastica la politica monetaria ultra-espansiva avviata sotto la Presidenza Draghi. In tal senso, fra il 2022 e il 2023, l’istituto di Francoforte, al fine di perseguire il primario obiettivo della stabilità dei prezzi, ha proceduto a vari innalzamenti dei tassi di interesse, portando il costo del denaro su livelli che non si vedevano da inizio millennio. Tale restrizione monetaria ha sì contribuito a un rallentamento del ciclo economico, ma, già nel 2024, grazie anche all’abbassamento del costo dell’energia, ha permesso di riportare il tasso di inflazione in prossimità dell’obiettivo del 2%.  Alla luce di ciò, a partire dalla metà dell’anno passato, i tassi hanno cominciato progressivamente a scendere, per tornare nelle ultime settimane su valori affini a quelli di fine 2022.  In condizioni “normali”, con un livello di inflazione stabilizzatosi intorno all’obiettivo statutario, sarebbe naturale aspettarsi una politica monetaria che, sostanzialmente, rimane ferma. Di fronte alla presenza di Trump alla Casa Bianca, e alla guerra commerciale da lui avviata, possiamo però tranquillamente affermare come queste non siano condizioni normali e che, conseguentemente, la BCE non possa godersi alcun tipo di riposo.

I dazi di Trump possono condizionare il lavoro della Banca Centrale Europea in maniera diversa, a seconda del fatto che le istituzioni euro-unitarie e gli Stati membri decidano o meno di rimanere fedeli all’accordo raggiunto da von der Leyen il 27 luglio.

Nel caso in cui l’Ue, seguendo la linea della Presidente della Commissione, confermasse un approccio “morbido” — evitando un rilevante innalzamento delle tariffe sulle importazioni americane — il rischio di assistere a un aumento dei prezzi sarebbe ridotto e, anzi, si paleserebbe la possibilità di fronteggiare una condizione di quasi-deflazione. La contrazione delle esportazioni verso gli Stati Uniti che potrebbe generarsi nei prossimi mesi rischierebbe infatti di portare a un rallentamento della crescita economica e a un conseguente raffreddamento del lato della domanda che, inevitabilmente, si rifletterebbe sul livello dei prezzi; la BCE si troverebbe quindi obbligata a operare (in maniera tempestiva) ulteriori riduzioni dei tassi, in modo da sostenere gli investimenti e la fiducia degli operatori economici ed evitare una caduta dell’inflazione al di sotto del 2%. Nel caso in cui l’Unione Europea dovesse invece nelle prossime settimane abbandonare la linea di Von der Leyen e optare per una reazione “dura” (anche per possibili ulteriori cambi di umore di Trump) — prevedendo quindi un significativo innalzamento dei dazi verso gli USA — si rischierebbe di assistere a un aumento del livello dei prezzi che porrebbe la BCE davanti a un complicato scenario di natura simil-stagflattiva. In effetti, il possibile aumento dell’inflazione spingerebbe Francoforte a una nuova restrizione monetaria; tuttavia, il probabile rallentamento del ciclo economico che potrebbe derivare da una vasta guerra commerciale renderebbe tale operazione particolarmente dolorosa, visto il rischio di aggravare ulteriormente un contesto economico già in affanno.

Nei mesi passati, diversi economisti avevano sostenuto che, evitando di imporre rilevanti contro-dazi, il tasso di cambio euro-dollaro avrebbe di fatto bilanciato gli effetti delle tariffe trumpiane. In quest’ottica, con una Federal Reserve “obbligata” a mantenere tassi elevati — a fronte di un’inflazione americana che cresce — e una BCE che invece li riduce — a fronte di un’inflazione europea che cala —, la valuta statunitense si sarebbe apprezzata rispetto a quella del vecchio continente, compensando sostanzialmente l’aumento dei dazi imposto da Trump. Questa previsione era basata su valutazioni economiche più che condivisibili che, in condizioni normali, avrebbero portato al risultato ipotizzato. Come già detto, tuttavia, ora non siamo in condizioni normali.

In tal senso, va infatti rilevato come le due banche centrali abbiano sì operato come previsto (con la Banca Centrale Europea che ha abbassato i tassi e la FED che invece li ha tenuti fermi) ma come il dollaro, invece di apprezzarsi, abbia perso di valore rispetto all’euro: questo è un inatteso effetto delle “picconate” assestate dalla Casa Bianca alla credibilità dell’economia americana e al ruolo di riserva globale della sua valuta. Un deprezzamento che aggrava ulteriormente gli effetti dei dazi statunitensi.

Nelle scorse settimane, esponenti di spicco di alcuni governi nazionali hanno invitato la BCE a procedere speditamente con ulteriori abbassamenti dei tassi. Alla luce di quanto sopra scritto, è ragionevole però affermare come, finora, l’istituto di emissione abbia giustamente evitato di impegnarsi a procedere in questa direzione (da ultimo, con la decisione del 24 luglio di tenere fermo il costo del denaro), attendendo di capire quale sia lo sviluppo della guerra commerciale in corso: solo una volta compresa l’effettiva direzione assunta da Consiglio e Commissione Europea sarà infatti possibile determinare la risposta da porre in essere.

In tal contesto, c’è da confidare che queste due istituzioni mantengano un dialogo costante con Francoforte, al fine di fornire ad esso — e ricevere da esso — le informazioni necessarie alla definizione di un’azione tempestiva e ben mirata.  Parimenti, è auspicabile che i dibattiti emersi negli anni passati in merito agli obiettivi attribuiti alla Banca Centrale non tornino ad infiammare il dibattito interno al Consiglio Direttivo e che, in particolare, non riemerga una miope concezione della stabilità dei prezzi (fino a qualche anno fa propugnata da Jens Weidmann, ex-banchiere centrale tedesco) che porterebbe la BCE ad agire in maniera tardiva rispetto all’affiorare di molteplici criticità.

In queste condizioni “anormali”, la Banca Centrale Europea non può quindi che rimanere alla finestra, affilare le armi e prepararsi a una nuova turbolenta fase della sua ancora breve (ma intensa) esistenza.

L’articolo è stato elaborato nell’ambito di “Focus Geofinanza. Osservatorio IAI-Intesa Sanpaolo sulla geofinanza

Ricercatore nel programma “Multilateralismo e governance globale” dell’Istituto Affari Internazionali. La sua attività di ricerca ha primariamente riguardato il quadro di governance economica dell’Unione Europea, il tema delle criptovalute e quello delle monete digitali delle banche centrali.

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