Memorandum Italia-Cina: un bilancio dell’iniziativa Belt and Road

Nel marzo 2019 il governo italiano ha firmato un Memorandum d’Intesa (meglio noto nella sua versione in inglese, Memorandum of Understanding, MoU) con il governo della Repubblica Popolare cinese, con il quale l’Italia è entrata ufficialmente a far parte dell’Iniziativa Belt and Road a guida cinese.

Il Memorandum: aspettative e preoccupazioni

L’iniziativa di per sé aveva già dato vita a un ampio dibattito ai cui poli vi era, da una parte, la visione promossa dalla Cina sulla natura win-win del progetto e, dall’altra, il rischio che dietro un apparente tentativo di ravvivare la globalizzazione economica si nascondesse in realtà un progetto egemonico atto a ricollocare la Cina al centro dello scacchiere internazionale. L’adesione formale all’iniziativa a guida cinese da parte del primo (e ad oggi unico) paese dei G7 non poté che ravvivare e polarizzare ulteriormente la discussione. Da una parte infatti, il governo italiano dell’epoca aveva visto nell’iniziativa cinese una possibile via di uscita dalla stagnazione economica che affligge l’Italia da anni; dall’altra, l’Italia era stata accusata di eccessiva ingenuità che l’avrebbe portata a diventare un cavallo di Troia per l’intero Occidente.

“Un’ampia zona grigia”

A due anni di distanza dalla sottoscrizione dell’MoU tra la Cina e l’Italia è tempo di trarre un bilancio per valutare se le aspettative dell’allora governo giallo-verde siano state esaudite o se invece le preoccupazioni avanzate da Washington e da vari paesi europei, nonché da diverse personalità italiane, si siano materializzate.

La ricerca sulla collaborazione tra Cina e Italia in cinque ambiti (porti, finanza, media, ricerca scientifico-tecnologica e accademia) mette in luce che tra le due posizioni esiste un’ampia zona grigia. Infatti, se da una parte i risultati della ricerca sfatano alcuni miti che aleggiano intorno alle conseguenze dell’MoU tra Cina e Italia, dall’altra fa emergere come la presenza cinese in ambiti spesso sottovalutati dal discorso mainstream possa essere veicolo di insidie e pericoli.

Tra tutti, è sicuramente la cosiddetta “trappola del debito” il rischio più volte menzionato nel dibattito intorno al MoU. Per chi sostiene la “trappola del debito”, Belt and road intiative sarebbe uno specchio per allodole in grado di far precipitare i paesi aderenti in una “trappola” tutta a vantaggio della Cina. In altre parole, la Cina non solo rimedierebbe alla sua sovraccapacità produttiva industriale,  ma si spingerebbe fino a elargire prestiti impossibili da sanare al fine ultimo di prendere possesso dei progetti co-finanziati nei paesi riceventi.

Per l’Italia, però, il rischio di cadere in questa trappola è mitigato dalle sue circostanze specifiche, che lo rendono ben diverso dai paesi in via di sviluppo – in cui un eccessivo indebitamento nei confronti della Cina si è effettivamente verificato – e da un solido sistema legale capace di proteggere il Paese da tale minaccia.  In tale contesto è anche opportuno specificare che, come messo in luce dalla ricerca, nessuno degli accordi di progetti infrastrutturali prevede prestiti da policy bank cinesi, e il MoU stesso dà maggiore rilievo alla Asia Infrastructure Development Bank la quale gode di standard più elevati in termini di trasparenza, benché non ancora perfetti.

Ad accrescere ulteriormente la preoccupazione vi era l’idea, rivelatasi infondata, che i meccanismi di controllo a disposizione del governo italiano non fossero adeguati. In realtà, sebbene vi sia margine di miglioramento, l’Italia possiede uno dei meccanismi di screening più efficienti a livello europeo, il cosiddetto Golden Power che, istituito nel 2012, è stato ulteriormente rafforzato negli anni successivi.  Tali rischi, di natura economica e finanziaria, sono stati ampiamente dibattuti e si sono rivelati infondati, quantomeno nel caso italiano.

I settori di cooperazione “rischiosi”

D’altra parte, però, collaborazioni con controparti cinesi in altri settori possono essere veicolo di minacce, sebbene non tutte si siano concretizzate. Tali collaborazioni riguardano gli ambiti della ricerca scientifico-tecnologica, il settore mediatico nonché dell’istruzione superiore e dell’accademia. La collaborazione in questi settori non solo in molti casi ha disatteso le aspettative di ricevere sostanziali supporti e benefici economici, ma ha esposto la controparte italiana a pericoli. Collaborazioni nel settore mediatico hanno, ad esempio, portato alla diffusione di visioni propagandistiche e allineate alla posizione del governo cinese che poco rispecchiano il rigore metodologico e l’etica professionale, nonché i principi guida che caratterizzano il settore giornalistico italiano; mentre la collaborazione in ambito scientifico e tecnologico espone il paese al rischio di drenaggio di tecnologia strategica e know-how.  Se è dunque innegabile che collaborazioni con controparti estere, cinesi incluse, siano necessarie alla comunità per accrescere il sapere, è allo stesso tempo fondamentale istituire meccanismi e/o tracciare linee guida che proteggano e mitighino tali pericoli.

Volendo trarre le somme, emerge come l’adesione dell’Italia alla Belt and road initiative non si sia tradotta in un paradiso di opportunità economiche né in un inferno colmo di pericoli. Ciò che con chiarezza emerge è la necessità di comprendere più a fondo il contesto cinese e di adottare una “China policy” più coerente e fondata su valutazioni puntali e rigorose per stabilire quali siano i veri rischi e le effettive opportunità che la collaborazione con la Cina porta con sé.
Foto di copertina ANSA/GIUSEPPE LAMI-ANTIMIANI

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