Le relazioni internazionali del Governo Meloni

Nella redazione della rivista AffarInternazionali si è svolto un forum organizzato dal magazine dello IAI sulla politica estera del Governo Meloni, a partire dai temi del Rapporto IAI sulla Politica Estera italiana 2023. Erano presenti Virginia Kirst (Corrispondente da Roma per Welt), Giovanna Reanda (Direttrice di RadioRadicale), Danilo Taino (Editorialista del Corriere della Sera) e Jean-Léonard Touadi (Funzionario FAO e docente di Geografia dello Sviluppo in Africa all’Università degli Studi La Sapienza di Roma). Hanno partecipato l’Ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci (Presidente dell’Istituto Affari Internazionali), Leo Goretti (Responsabile del Programma Politica Estera dell’Italia dello IAI e Direttore di The International Spectator), curatori del Rapporto IAI sulla Politica Estera italiana 2023, e Stefano Silvestri (Direttore Editoriale di AffarInternazionali). Ha moderato Francesco De Leo (Responsabile Comunicazione dello IAI e Direttore responsabile della rivista AffarInternazionali). Riportiamo alcuni passaggi del dibattito che è possibile ascoltare integralmente sul sito della nostra rivista nella sezione Podcast di AI.

A cura di Marta Fornacini. 

Ferdinando Nelli Feroci: “il nostro giudizio complessivo è abbastanza positivo”

“Avevamo come compito quello di analizzare la politica estera del governo Meloni nell’arco dell’anno che si è concluso un mese e mezzo fa. Siamo partiti dalla constatazione che il governo si è confrontato con una situazione particolarmente complessa: un quadro internazionale caratterizzato da due conflitti e altre criticità, una situazione economica che non era delle più felici, e continua a non esserlo, con tassi di crescita molto bassi, e un’inflazione ancora molto alta. Una situazione di bilancio – che cito perché in qualche modo impatta sulla politica estera – che, tutto compreso, consentiva scarsissimi margini di azione al governo. Ultimo fattore, le tensioni all’interno della maggioranza tra tre partiti che, pur essendo solidamente a sostegno del governo, comunque nel corso dell’anno hanno avuto bisogno di rimarcare le rispettive identità, creando qualche tensione anche sul fronte della politica estera. Detto questo, il nostro giudizio complessivo è  abbastanza positivo, partendo dal presupposto che avevamo aspettative molto basse e circoscritte. Abbiamo constatato che in politica estera il governo Meloni ha fatto meglio che su altri temi, più strettamente di politica interna. Lo dico guardando a tre o quattro tematiche fondamentali. Sulla guerra in Ucraina abbiamo potuto osservare una notevole continuità di linea rispetto ai governi precedenti, in particolare al governo Draghi; registriamo un saldo rapporto con l’Amministrazione americana che ha un presidente democratico – e lo dico perché, in passato Meloni, aveva espresso non poche simpatie per Trump. Abbiamo potuto riscontrare un impegno solido nella Nato, per la Nato e con la Nato. Abbiamo verificato, anche sul tema dei rapporti con la Cina, una linea saggia e pragmatica, la rinuncia al Memorandum of Understanding, ampiamente prevedibile e prevista, in un contesto di iniziative e sforzi che avevano come obiettivo soprattutto quello di evitare ricadute sotto forma di rappresaglia, di retaliation da parte cinese, e mi sembra che, tutto compreso, almeno per ora, questo obiettivo sia stato raggiunto.

Sulla ripresa del conflitto israelo-palestinese e sulla crisi a Gaza e in Medio Oriente, il governo ha adottato una linea che si colloca evidentemente nel mainstream della posizione condivisa dai paesi occidentali, non di particolare protagonismo, ma un approccio  che si caratterizza per tre elementi: la condanna, ovviamente, degli attentati terroristici di Hamas, appelli non particolarmente pressanti a Israele perché rispetti un minimo di garanzie di diritto umanitario e internazionale nelle operazioni a Gaza e il rilancio dell’ipotesi di un dialogo politico sulla base del famoso slogan, non so quanto attuabile, dei due popoli, due Stati. 

Riguardo al tema dei rapporti con l’Europa, la vera abilità della Presidente del Consiglio – e con lei, in larga misura, anche del governo – è stata quella di accantonare l’atteggiamento pregiudizialmente ostile e antagonizzante, in nome di un approccio molto più pragmatico che qualcuno ha voluto qualificare come “provvidenziale incoerenza”: aver capito, cioè, che, tutto compreso, conviene stare in Europa e con l’Europa, perché si difendono meglio anche gli interessi nazionali. 

Linea molto più sbiadita e meno protagonista sull’altro grande negoziato che ha caratterizzato l’anno scorso: la revisione del Patto di stabilità. E poi quello che ho definito anche pubblicamente lo scivolone più clamoroso: la mancata ratifica del Meccanismo europeo di stabilità, vittima di una campagna elettorale e di un’incapacità e non volontà della Presidente del Consiglio di far valere un punto di vista ragionevole rispetto alle pulsioni e pressioni che le arrivavano in particolare da un partito della maggioranza, la Lega.

Sul tema dell’immigrazione, abbiamo osservato uno spostamento di accento rispetto alle linee tenute dai governi precedenti, dal tema della solidarietà – e quindi dalla richiesta di meccanismi di burden sharing, di redistribuzione dei migranti e dei richiedenti asilo – a quello  del controllo delle frontiere esterne e della collaborazione con i paesi di transito e di origine, come strumenti di gestione dei flussi migratori. Sono testimonianza di questo soprattutto i due accordi: uno, non solo italiano ma anche europeo, con la Tunisia e l’altro, solo italiano, con l’Albania. Su questi abbiamo sospeso il giudizio, perché li vedremo alla prova dei fatti. 

Sul contrasto al cambiamento climatico e alla transizione energetica, abbiamo constatato un atteggiamento particolarmente prudente, non di rimessa in discussione degli obiettivi concordati in sede europea, ma certamente molta più attenzione al tema della sostenibilità economica e sociale delle misure necessarie per garantire la transizione energetica e sicuramente non un ruolo di leadership sotto questo profilo, in un contesto in cui poi l’Italia non è isolata su questa linea di estrema prudenza rispetto al tema ”.

Leo Goretti: in Europa, un approccio intergovernativo rischia di essere perdente per l’Italia

“Se noi guardiamo la politica estera italiana in un’ottica di lunghissimo periodo possiamo dire che il tema di fondo, dall’unità d’Italia in poi, è sempre stato quello del posizionamento del Paese in uno status intermedio tra la media e la grande potenza, con delle oscillazioni continue e un’ambiguità, per certi versi, risolta su questo status.

Dal 1989 in poi, con la fine della guerra fredda, la tematica di fondo della politica estera italiana è stata fondamentalmente quella della gestione del declino della posizione dell’Italia a livello internazionale, ovviamente  in termini relativi. La perdita di centralità della posizione strategica del Paese, nel periodo post guerra fredda, e l’emergere di altri grandi attori a livello globale destinati sempre più a ritagliarsi il ruolo sul proscenio internazionale, hanno fatto sì che questo diventasse il tema di fondo della politica estera italiana. È un aspetto che è tanto più urgente oggi, bastano alcuni dati oggettivi a ricordarlo. Quello più noto è, forse, il rapporto debito pubblico – PIL: siamo il secondo Paese in Europa con la percentuale più alta, 142% e rotti. Ma ci sono anche altre dinamiche di lungo periodo che pesano sulle possibilità per il Paese di sviluppare politiche, per esempio, di innovazione, di sviluppo e una politica estera più assertiva. Tra queste richiamo il tema demografico: il tasso di dipendenza degli anziani in Italia è il più alto dell’Unione europea, già oggi al 37,5%; di qui al 2050 la popolazione del Paese è destinata a diminuire probabilmente intorno ai 54 milioni. Basta pensare che quella francese aumenterà crescendo oltre i 70 per renderci conto di come queste dinamiche a livello europeo stiano cambiando. Non solo, ma nel 2050 si stima che in Italia ci sarà una persona tra i 15 e i 64 anni (quella che, oggi, è considerata l’età da lavoro) per ogni altra persona over 65 o under 14; il grande blocco sarà quello degli over 65, che saranno circa un terzo degli italiani. 

Tutto questo pesa tantissimo sulle possibilità del governo – ma non solo di questo ovviamente – di sviluppare delle politiche, soprattutto in ambito economico, che incidano anche sugli equilibri complessivi a livello europeo. Qui, secondo me, sta il grande paradosso. Noi adesso abbiamo un governo che è guidato da una formazione che alcuni, secondo me in modo improprio, hanno definito populista: io credo che il termine più corretto per descrivere il retroterra ideologico di Fratelli d’Italia sia quello di un nazionalismo democratico. Il punto di fondo, però, è che questa visione nazionalista che si articola in Europa attorno all’idea di un’Europa delle patrie, quindi con una componente molto più intergovernativa che non comunitaria nel processo di integrazione europea, in realtà è una visione che per l’Italia rischia di essere perdente. Questo proprio per i fattori già accennati: per la traiettoria di lungo periodo, per il livello economico e demografico del paese. Di fatto, se ci si pone in una logica strettamente transazionale di negoziazione, secondo una logica da gioco a somma zero, con gli altri paesi si rischia di perdere”. 

Virginia Kirst: “in Germania siamo stati positivamente sorpresi dal governo Meloni”

“Concordo con la gran parte di quello che il Presidente Feroci ha detto nella sua introduzione: anche noi in Germania siamo stati positivamente sorpresi dal governo Meloni, nel primo anno e mezzo è andato effettivamente meglio di quel che si pensava. Nel mio lavoro ho soprattutto cercato di raccontare alla Germania e ai tedeschi come questo governo stia agendo diversamente rispetto a quello che si poteva pensare all’inizio, e ci abbiamo messo tanto tempo per farlo. Un anno fa, quando il governo era già insediato da vari mesi, in Germania si discuteva ancora sui termini di neofascismo e post-fascismo, ma devo dire che, in questo 2023, siamo finalmente riusciti ad andare oltre. I rapporti tra la Germania e l’Italia sono stati buoni, non tantissimo amichevoli, ma è anche stato firmato il contratto di governo tra Germania e Italia che dovrebbe vedere una più stretta collaborazione tra i due parlamenti nei prossimi anni; in Germania è stato accolto come una buona cosa. 

Se si parla dell’approccio del governo italiano all’Ucraina, anche questo è stato ovviamente visto positivamente in Germania. A volte, però, osservando l’aiuto effettivo che l’Italia sta fornendo all’Ucraina, i tedeschi sono un po’ sorpresi dal fatto che non sappiamo esattamente quali armi il paese stia inviando. Effettivamente, molte di queste cose sono ancora secretate: certo abbiamo letto qualcosa su alcuni giornali italiani, e un po’ se ne è parlato, tuttavia manca una cornice più precisa. In Germania e in Francia si è parlato tantissimo di questo tema, mentre l’Italia è sempre rimasta un po’ fuori da questa discussione, se non nell’ambito della retorica dell’appoggio all’Ucraina.

Se guardiamo poi all’Unione europea, anche in Germania ha sorpreso tantissimo la mancata ratifica del MES e, anche in questo caso, è stato difficile spiegare fuori dall’Italia perché questo non è avvenuto: abbiamo fatto del nostro meglio per mostrare le ragioni politiche interne, l’immagine che ha la troika in Italia e il motivo per il quale è stata una cosa politica non poterlo ratificare, ma anche, secondo me, una dimostrazione di debolezza del governo italiano. 

C’è una terza cosa che volevo dire: anche il modo in cui l’Italia, in generale, si è presentata nell’Unione europea è stato accolto sorprendentemente bene in Germania, perché la Presidente Meloni si è sempre dimostrata aperta al dialogo anche sul tema della migrazione”.

Giovanna Reanda: “Meloni, nel corso di questi 15 mesi, si è creata un’aria di affidabilità

“Per rispondere alla domanda come vedo la politica estera italiana del governo Meloni: rispetto a quello che ci potevamo aspettare, decisamente bene. Io do un giudizio positivo. È chiaro che, in questo mio intervento – io mi occupo essenzialmente di politica interna, però ho la politica estera come primo amore –, non posso che mettermi gli occhiali della politica interna per guardare i fatti esteri. 

Meloni è una Meloni di lotta e di governo: ha condotto, cioè, una campagna elettorale con la quale poi oggettivamente ha preso tanti voti in Italia, vincendo proprio con la linea nazional-conservatrice. Poi però, più draghiana di Draghi, ha portato tutti i tre partiti della sua maggioranza sotto l’ombrello della Nato e dell’Atlantismo. Questo sicuramente è stato tranquillizzante per i partner europei e, nel corso di questi 15 mesi – certo a momenti alterni e. soprattutto. con relazioni bilaterali probabilmente non sempre tranquillissime –, si è creata un’aria di affidabilità. Anche rispetto, per esempio, al rapporto con Orban: aver fatto passare il concetto di averlo convinto a non mettersi di traverso rispetto agli aiuti all’Ucraina ha determinato nei partner europei un’idea che lei sia oggettivamente un personaggio e un politico affidabile. Non ci dimentichiamo che comunque veniva dopo Draghi ed è chiaro che il confronto rimane per lei non particolarmente facile da superare.  

La vicenda dell’Ucraina è stata centrale sia perché ha rappresentato decisamente un momento di grande sconvolgimento sia da un punto di vista geopolitico, ma anche per le questioni legate all’economia e ai rapporti fra i paesi. Per la sua compagine di maggioranza, Meloni ha dovuto tenere sopito il fatto che ci fosse un filo-putinismo – in alcuni casi strisciante, in altri molto più evidente – che sicuramente avrebbe rappresentato un grossissimo problema se fosse emerso in tutta la sua potenza. 

Tornando al discorso delle prossime elezioni europee, dato che siamo in pienissima campagna elettorale, è un po’ la politica dei due forni: Giorgia Meloni ha iniziato una relazione, stringendo un rapporto anche personale con Ursula von der Leyen. Non ci dimentichiamo che Ursula von der Leyen l’ha accompagnata a Lampedusa e quello è stato sicuramente un momento in cui l’Europa si è affacciata al problema immigrazione. Ricordiamoci, inoltre, quello che Meloni diceva in campagna elettorale e anche negli anni precedenti: penso al blocco navale e a tutte queste idee anche un po’ fantasiose e decisamente poco realizzabili. Ursula von der Leyen è venuta in Emilia Romagna quando c’è stato il problema dell’inondazione; quindi è stata presente. Questa è un po’ una coperta che Meloni si è costruita. Penso che, in realtà, stia giocando la sua partita nella Commissione europea perché lei questa partita è convinta di vincerla e, detto francamente, per come si sta muovendo, potrebbe addirittura riuscirci. Chiudo citando Weber che probabilmente era convinto, nel fare quella apertura, di riuscire a portarla al centro: e se invece Meloni portasse il centro a destra?

Danilo Taino: le elezioni europee e negli Stati Uniti rappresenteranno due momenti delicati per il governo Meloni

“Credo che possiamo sottolineare la continuità del governo Meloni con il governo Draghi.  Questa è una delle note più positive. Credo che il governo andrà incontro – e soprattutto la presidente – a due momenti particolarmente delicati e difficili nel corso di quest’anno. E sono naturalmente entrambi legati alle elezioni: quelle europee e quelle negli Stati Uniti. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, credo che non sarà facile il rapporto con Trump. È vero che in passato Meloni l’ha apprezzato e probabilmente continuerebbe a farlo, se per caso (non ne sono troppo convinto) Trump dovesse vincere. Questo è un primo punto delicato che, secondo me, è abbastanza importante per il governo. Siamo, infatti, in una fase nella quale è richiesto ai paesi europei che fanno parte della Nato di investire di più. Credo che l’Italia dovrebbe spingere, assieme ad altri paesi, per un’integrazione maggiore dei sistemi di difesa europei: il procurement che deve essere rafforzato e reso comune, investimenti per quel che riguarda gli standard comuni che devono essere creati, una ristrutturazione sostanziale del settore della difesa per quel che riguarda l’Europa. Credo che qui l’Italia, che ha una forte presenza nell’industria bellica e della difesa, possa giocare un ruolo. Non sono, in generale, particolarmente favorevole ai piani industriali e agli interventi di stato nell’economia. Tuttavia, nel caso della difesa e in questo momento, con il disordine globale che abbiamo di fronte, credo che questo sia una necessità, per quel che riguarda l’Europa. Soprattutto dopo le dichiarazioni di questi giorni di Trump, credo che non ci possano essere dubbi da questo punto di vista. Mi piacerebbe addirittura un mercato comune della difesa in Europa, se fosse possibile una cosa del genere. 

Il secondo punto che vorrei sottolineare è quello delle elezioni europee che ci saranno fra poco. Credo che questo sarà un passaggio determinante per capire quale sarà il ruolo, la posizione e la capacità di influenza dell’Italia all’interno dell’Unione europea. Non ho grandi speranze per quel che riguarda l’influenza italiana in Europa, o in generale nel mondo, penso però rappresenti un momento decisivo non solo sulla base di come andranno le elezioni, ma anche sulla base di quali scelte farà il governo italiano, e in particolare la Presidente Meloni, per quel che riguarda i voti e la creazione della prossima Commissione europea. Credo sarà importante vedere come l’Italia si colloca e capire se il governo italiano resisterà alla pressione che si creerà in quel momento. 

C’è un ultimo punto che vorrei toccare, che mi sta molto cuore e che credo non sia solamente un problema italiano, seppure qui sia particolarmente forte: la pigrizia con la quale il governo, gli intellettuali e i media stanno affrontando la lettura di quello che sta succedendo nel mondo e di questo disordine internazionale. Credo ci sia una pigrizia che può diventare facilmente nichilismo, nel senso che non si riesce, o non si vuole, spiegare qual è la posta in gioco veramente nel mondo, quali sono gli equilibri e quanto forte possa essere l’impatto dell’aggressione all’Ucraina, dell’aggressione di Hamas e dell’Iran e – direi, complessivamente – dell’aggressione nei confronti delle democrazie, sul nostro paese e sulle democrazie europee. Su questo c’è un’assenza di riflessione e di senso dell’urgenza che, secondo me, anche il governo dovrebbe prendere in considerazione in maniera molto più decisa. C’è una responsabilità collettiva e anche questa va a creare, penso io, la politica estera di un paese”.

Jean-Léonard Touadi: “Il piano Mattei è un testo che andava scritto” 

“Il piano Mattei è un testo che andava scritto. Non sono d’accordo con quelli che dicono che sia un guscio vuoto: intanto qualcuno lo doveva mettere sul tavolo ed è bene che sia stato proposto. Però è un testo da inserire nel  contesto dell’Africa attuale. Si pensava, dopo la caduta del muro di Berlino, a una specie di solitudine geopolitica del continente africano, perché non poteva più vivere della rendita politica della guerra fredda (ma molto calda nel continente) tra i due blocchi. L’Europa, in questo momento, si ritira, secondo me, dal continente africano perché attratta dall’eldorado dell’Europa dell’Est, più vicina, più facile, più simile anche agli europei occidentali, e poi perché impegnata nella sua propria convergenza in vista della moneta unica. Nel frattempo, però, questa solitudine geopolitica dell’Africa è durata poco. Due fatti bisogna notare. Anzitutto, proprio negli anni dopo la caduta del muro di Berlino, l’Africa passa dalla stagnazione alla crescita: anche dal punto di vista politico, l’inizio dei processi di democratizzazione e il pluralismo guidato dal carisma di Nelson Mandela, che a metà degli anni Novanta arriva in sud Africa, portano questa nuova renaissance africaine, rinascita africana, quindi un emerging Africa, come descritto da The Economist, rising Africa, un nuovo protagonismo del continente africano. Questo, però, insieme a un nuovo arrembaggio al continente africano, the new scramble for Africa, simile a quello della rivoluzione industriale: la nuova economia ha bisogno di materie prime, di risorse naturali di cui l’Africa abbonda,  soprattutto nei segmenti più avanzati della New economy, la nuova economia digitale, il cobalto tra gli altri. In questa nuova competizione verso il continente africano due sono i maggiori protagonisti: la Cina, sicuramente, che in pochi anni diventa il primo partner commerciale del continente africano e anche il più grande investitore. Gli Stati africani non guardano più a Bretton Woods, alla Banca Mondiale, al fondo monetario internazionale a causa delle troppe condizionalità, delle procedure troppo lente, delle richieste di riforme economiche e di governance economica. La Cina non chiede, apparentemente, quasi nulla: soldi in abbondanza, a tassi di interesse molto, molto vantaggiosi e soprattutto il pagamento si può fare in natura. Ma, e quello interessava gli africani, promette non ingerenza negli affari interni, quindi nessuna condizionalità democratica, nessuna ricerca di riforme economiche e così via dicendo. Questo porta tutta l’Africa nelle braccia della Cina. Tuttavia, nell’attuale teatro di una gigantesca ricomposizione geopolitica e geostrategica, accanto a Cina e Stati Uniti ci sono anche le mezze potenze, se così si possono chiamare: la Turchia, la Russia, il Giappone, i paesi arabi, che non si raccontano abbastanza. La Turchia si racconta, ma non si fa abbastanza con il protagonismo degli Emirati Arabi Uniti nel continente africano. Il piano Mattei arriva in questo contesto e penso sia un tema davvero fondamentale della proiezione estera dell’Italia. È un piano che, per ora, abbiamo cominciato a veder nascere con il discorso della presidenza del Consiglio davanti ai Capi di Stato che ha riunito qui a Roma. Un successo, comunque, perché erano presenti 38 delegazioni su 54, e nessuno pensava che si potesse raggiungere quella partecipazione. Era presente anche l’Europa ed era molto importante che ci fossero i vertici europei e la presenza dell’Unione Africana”. 

Stefano Silvestri: “ci aspettavamo disastri e non sono avvenuti”

“Il governo Meloni approfitta del fatto che ci aspettavamo disastri e non sono avvenuti, per cui adesso noi ne decantiamo le lodi, ma non esageriamo. Se, come sappiamo, è la politica interna che guida le scelte di politica estera della Meloni, io non sarei molto ottimista. Perché, in politica interna, tutto sommato, questo governo non ha superato completamente i suoi ideologismi, i suoi problemi, per esempio la modifica della Costituzione nel senso del premierato. Non so come e se riuscirà mai a passare, ma è una chiara indicazione ideologica che non ha fondamenta veramente serie e, se passasse, sarebbe un grosso impoverimento del sistema democratico italiano, perché indebolirebbe il sistema di checks and balances. Ora, una visione positiva di quello che ha fatto: è andata sulla continuità, ma direi che è stata molto aiutata dal fatto che, come era ovvio, questo governo sarebbe stato un governo filo-americano, perché era l’aggancio più evidente che poteva avere. Ma è stata aiutata anche dal fatto che il governo americano era guidato da Biden e questo le ha permesso anche di coprire, rispetto ai suoi alleati di governo, una politica più filo-europea, perché Biden è filo-europeo. Se ci fosse un Trump alla Casa Bianca – ipotesi che mi auguro non si realizzi – creerebbe una situazione molto più conflittuale su tutto e, probabilmente, anche con una forte funzione americana di critica ai maggiori Paesi europei e all’Unione Europea. Forse, anche una maggiore spinta protezionista, ma quella già c’è oggi perché in realtà dipende dalle posizioni del Congresso. In quel caso, molto probabilmente, tutto sarebbe aperto: non abbiamo certezze su come si comporterebbe un governo italiano, non solo un governo Meloni per altro. Ci sarebbe da vedere quanto regge l’Unione. Per quanto concerne la Nato, l’Italia è allineata e coperta, ma non se passiamo a una situazione più di polemica con gli Stati Uniti. Perdere l’aggancio con gli Stati Uniti significherebbe, evidentemente, per il governo Meloni perdere un po’ la sua stella polare. Altro punto di possibile preoccupazione: adesso ci avviamo in un periodo molto difficile del conflitto ucraino, perché da un lato bisognerà continuare a sostenere la resistenza ucraina all’attacco russo, ma dall’altro bisognerà prepararsi a una soluzione, perché non c’è una chiara prospettiva di vittoria sulla Russia; nel mentre bisognerebbe cercare di evitare la possibilità di una vittoria russa sull’Ucraina. Da un lato significa mantenere la solidarietà e dall’altro aprire canali di trattativa. E questo non è mai facile, in particolare se dall’altra parte c’è un personaggio così ideologicamente motivato e che si sta giocando il tutto per tutto come Putin. L’altro problema che, secondo me, stiamo cercando di evitare in tutti i modi ma rischia di scoppiarci in faccia è quello del Medio Oriente. La totale assenza di iniziative – non che mi stupisca molto, l’Italia non può fare un granché – maschera, secondo me, un’assenza, un’incertezza di allineamento, non si sa bene che cosa fare”.

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