L’amministrazione americana ha mobilitato un dispositivo militare di quindicimila uomini per reprimere il narcotraffico proveniente dal Venezuela e le violazioni dell’embargo al regime di Nicolás Maduro. L’imponente spiegamento di forze statunitensi è entrato in azione da settimane con più attacchi a imbarcazioni di narcotrafficanti e negli ultimi giorni con il sequestro di una petroliera “fantasma” venezuelana. Il presidente Donald Trump annuncia che Maduro sta vivendo “i suoi ultimi giorni” al potere e non esclude un intervento militare terrestre delle truppe americane.
Alla guida del Venezuela da dodici anni, Maduro ha intensificato la repressione del dissenso interno. Dopo le ultime elezioni presidenziali, nelle quali Maduro si è attribuito illegittimamente la vittoria, nonostante gli impegni sottoscritti con gli accordi di Barbados (2013), il regime ha stretto la sua morsa con altri arresti e nuove restrizioni. Secondo Human Rights Watch, lo scorso anno le aggressioni e i fermi illegali da parte degli organi di sicurezza sono aumentati del 92% rispetto all’anno precedente. Il10 dicembre, Giornata Internazionale dei Diritti Umani, la polizia venezuelana ha celebrato la ricorrenza impedendo al Cardinale Baltazar Porras, in partenza per Madrid, di uscire dal Paese e sequestrandogli il passaporto senza motivo.
È possibile che in Venezuela le mosse dell’amministrazione americana si risolvano in un esercizio muscolare per contenere le iniziative più azzardate di Maduro e per limitare il suo sostegno a Cuba. L’isola del castrismo 2.0, non troppo dissimile dalla prima versione, è antagonizzata dagli Stati Uniti più che in passato, ora che al Dipartimento di Stato c’è Marco Rubio, figlio di esuli cubani. Con Rubio pesa l’influente comunità cubana della Florida. Ma è plausibile che i propositi di Washington non siano solo dimostrativi. Lo spiegamento di forze è un grande investimento di uomini e mezzi e gli avvertimenti della Casa Bianca potrebbero andare al di là delle dichiarazioni estemporanee del suo inquilino. A fronte di una mobilitazione imponente, l’essersi spinti così avanti comporta per Washington la necessità di qualche risultato tangibile.
La nuova strategia di sicurezza nazionale Usa stabilisce che “gli Stati Uniti riaffermeranno e imporranno la dottrina Monroe per restaurare la supremazia americana nell’emisfero occidentale”: Washington non consentirà ai suoi “competitori non emisferici” di disporre lì di forze o altre capacità minacciose, “né di possedere o controllare assetti strategici vitali per gli Usa”. È il corollario Trump della dottrina, con il ripristino del potere americano secondo gli interessi degli Stati Uniti. Russia e Cina sono avvertite: nessuna loro interferenza sarà consentita nel giardino di casa. In cambio, Mosca e Pechino saranno rassicurate da quanto leggono nel documento di strategia circa i limiti di quegli interessi (“we cannot afford to be equally attentive to every region and every problem in the world”). Se è il prodromo di una nuova Yalta, la strategia può dispiegarsi fino al Donbass e dintorni, traducendosi in un disimpegno americano più che preannunciato, con buona pace di ucraini ed europei.
Restano le tensioni intorno al regime di Caracas, inviso ai più in Venezuela, in Sudamerica e non solo. Le trame opache del governo, la repressione interna e la contiguità con il narcotraffico si sono accentuate rispetto ai tempi di Hugo Chávez, populista autoritario e bolivarista verboso (“Ma perché non stai zitto?”, gli urlò in faccia una volta Re Juan Carlos). Oggi il Paese è in affanno: l’economia annaspa, gli esuli aumentano, la leader dell’opposizione Maria Corina Machado è costretta alla clandestinità e a una fuga rocambolesca – beffa clamorosa per Maduro – per ritirare il premio Nobel per la pace a Oslo. E restano le ombre di un’elezione manipolata ai danni dell’opposizione e del mancato riconoscimento internazionale del voto.
Il quadro è preoccupante, non da ultimo per l’Italia che ha lì decine di migliaia di connazionali e il cooperante Alberto Trentini, detenuto da oltre un anno senza processo e senza imputazione. Se tutto questo ora dovesse indurre gli americani a un’iniziativa unilaterale per rovesciare il regime, confidando nell’acquiescenza della comunità internazionale, assisteremmo a un altro duro colpo alla legalità su scala globale e a un altro sciagurato passo verso la preminenza della forza sul diritto e verso la crisi fatale dell’idea di governance mondiale condivisa.
Presidente dell'Istituto Affari Internazionali e presidente del Centro italo-tedesco per il dialogo europeo Villa Vigoni su proposta congiunta dei governi italiano e tedesco. Diplomatico di carriera, ha lavorato alla Direzione degli Affari Economici (1975), all’Ambasciata d’Italia a Brasilia (1978) e all’Ambasciata d’Italia a Bonn (1981). Dal 1984 al 1987 è stato consigliere a Beirut. Nel 1991 è nominato Primo consigliere a Bruxelles, presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea. Nel 1997 diventa ambasciatore a Sarajevo. Nel 1999 assume la direzione dei Rapporti con il Parlamento e poi del Servizio Stampa alla Farnesina. È Ambasciatore a Brasilia dal 2004, a Berlino dal 2009 e Segretario Generale della Farnesina dal 2012 al 2016.





