Sino a qualche anno fa, e pur essendo coinvolto ormai da decenni in una guerra civile che contrapponeva il nord del paese e la capitale, arabi e di religione sunnita, alle tre province del sud abitate da possenti e numerose etnie nere, prevalentemente cattoliche, il Sudan poteva ancora sperare in un avvenire di prosperità che sarebbe stato prima o poi propiziato da un eventuale accordo di pace.
Risorse naturali e prospettive interrotte dalle guerre
Al paese, il più grande di tutta l’Africa, veniva infatti concordemente riconosciuto il potenziale per divenire in futuro il “bread basket” (il “cestino del pane”) dell’intero continente. E si trattava di un ruolo che i numerosi lavori previsti per regolarizzare nel tratto centrale del loro corso il Nilo Bianco ed il Nilo Azzurro avrebbero di sicuro ulteriormente esaltato.
Altrettanto buone erano le prospettive dal punto di vista minerario, fra grandi giacimenti di idrocarburi già individuati nelle province dell’est ed in quelle meridionali, miniere d’oro già in via di sfruttamento più o meno in tutto il territorio e soprattutto in Darfur, ed altre favorevoli possibilità già individuate, e che soltanto le guerre avevano impedito sino a quel momento di valutare e sfruttare in maniera adeguata.
La crisi degli ultimi vent’anni e la nascita del Sud Sudan
Purtroppo, nel corso degli ultimi quindici-venti anni, il destino sembra aver voltato le spalle al grande paese, travagliato prima terribilmente da uno scontro spietato in Darfur, la sua regione più occidentale, e successivamente costretto, esausto, ad accettare una partizione in due Stati che lo ha privato delle tre grandi province meridionali.
È nato così il Sudan del Sud e si è trattato di un parto estremamente laborioso e difficile anche perché caratterizzato da sollevazioni contro l’arroganza dell’etnia dominante, quella dei Dinka, che non hanno ancora trovato un soddisfacente compromesso di soluzione e rischiano tuttora di spaccare in due anche il nuovo Stato. Anziché un solo Sudan, come avevamo prima, ne abbiamo invece adesso due e rischiamo nel contempo di averne domani tre, qualora anche il Sud Sudan dovesse realmente spaccarsi in due distinte parti in un prosieguo di tempo.
La possibilità di una nuova frammentazione statale
Si tratta di un rischio, quello di ulteriori frazionamenti, che travaglia nel contempo anche il Sudan del Nord che, dopo essere riuscito con fatica a liberarsi del dittatore in carica da circa 30 anni, il generale Bashir, è ora sconvolto da una guerra civile che le Nazioni Unite valutano, come numero dei morti e dei rifugiati, quale una delle peggiori tragedie attuali del Continente Africano.
Le due forze in conflitto e il coinvolgimento delle potenze regionali
Le due parti coinvolte negli scontri sono da un lato le Forze Armate Sudanesi (FAS) e dall’altra le milizie delle Forze di Supporto Rapido (FSR) che si disputano con asprezza, senza esclusione di colpi e con alterna fortuna, il controllo di ciò che resta dell’originale Stato sudanese.
Ciascuna di esse è poi appoggiata e rifornita, soprattutto di armi e di equipaggiamenti, da altre medie potenze del Nord Africa o della Penisola Arabica: dal Ciad alla Libia, dall’Egitto all’Arabia Saudita, dal Qatar agli Emirati Arabi Uniti, alcune delle quali hanno anche preso in tempi recenti l’abitudine di reclutare in Sudan i mercenari necessari per gli scontri che si prevedono più sanguinosi. Vedasi, ad esempio, ciò che ha fatto Rijad allorché si è presentata la necessità di affrontare per qualche tempo anche su un fronte terrestre gli Houti dello Yemen settentrionale.
L’ascesa del Darfur e la trasformazione delle milizie
È opportuno in ogni caso a questo punto concentrare per un attimo la nostra attenzione sul come una provincia di frontiera, il Darfur, nonché le milizie che essa esprime, siano riuscite in un limitato numero di anni a divenire una spina nel fianco per quello stesso governo centrale che a suo tempo ne aveva favorito la nascita e la crescita e poi per parecchi anni le aveva associate all’esercito regolare nelle operazioni di repressione armata dei torbidi.
Per capirlo bisogna innanzitutto rifarsi alla storia, comune a tutta l’Africa, di confini tracciati sulla carta dalle potenze coloniali senza alcun rispetto per l’esistente suddivisione etnica dei territori. Il Darfur infatti è, o almeno era, un’area imparentata, dal punto di vista tribale molto più con i Toubus del Ciad e del nord della Libia piuttosto che con le etnie sudanesi.
Le radici etniche e pastorali del conflitto
Inoltre le tribù dominanti, tra cui primeggia quella dei Rizeigat, sono popoli di allevatori di cavalli e dromedari. Non hanno quindi mai sopportato che sul loro territorio si installassero pastori, o peggio ancora agricoltori, che in breve avrebbero monopolizzato le risorse d’acqua disponibili e creato sul terreno una fitta rete di delimitazione delle proprietà che avrebbe posto fine al loro nomadismo stagionale.
È questa la ragione per cui, allorché l’esplosione demografica avvenuta a sud, nei paesi neri, ha fatto emigrare in Darfur una massa di immigrati in cerca di sostentamento e di terra essi si sono ricordati di essere stati in passato guerrieri temibili.
Dai “diavoli a cavallo” alle Forze di Supporto Rapido
Hanno così dato vita a una repressione condotta da una milizia che ha preso in origine il nome di Janjawid (i diavoli a cavallo) salvo poi col tempo strutturarsi, divenire sempre più forte e più ricca, evolvere nelle attuali Forze di Supporto Rapido e collaborare per anni con i governi in carica a Khartum salvo poi, in conclusione – l’appetito vien mangiando! – dar vita ad una aperta ribellione mirante al controllo dell’intero paese.
Uno scontro ancestrale e incomprensione occidentale
Si è trattato, almeno nelle sue fasi iniziali e finché le cose si sono limitate al Darfur, di uno scontro (allevatori contro contadini) di un carattere e di una crudeltà biblici nella loro ancestralità e di cui, come purtroppo spesso avviene, i governi e le opinioni pubbliche occidentali non hanno compreso quasi nulla, rimanendo del tutto inerti o limitandosi a qualche limitato sostegno di carattere umanitario.
L’impossibilità di applicare modelli democratici occidentali
E del resto che altro avrebbero potuto fare? Se avessero chiesto l’applicazione localmente delle regole delle loro democrazie, la massa degli immigrati, pastori e contadini, avrebbe sicuramente soverchiato ai seggi elettorali gli allevatori, signori del territorio da tempo immemorabile ma certo meno numerosi dei loro avversari… E anche in quel caso lo scontro armato sarebbe divenuto inevitabile.
Un conflitto alimentato da divisioni religiose e identitarie
A peggiorare ulteriormente le cose si è aggiunto anche il fatto che le tribù originarie del Darfur fossero composte da musulmani fanatici – le loro etnie costituirono la migliore forza montata della rivolta dell’ottocentesco Mahdi di Khartoum – mentre i contadini neri erano in maggioranza cristiani.
Un abisso di odio, quindi, che avrebbe permesso alla provincia di ritrovare un poco di stabilità soltanto dopo la definitiva vittoria dei diavoli a cavallo.
L’ascesa delle etnie guerriere del Darfur e l’alleanza con i Toubus
A quel punto però le etnie guerriere del Darfur avevano riassaggiato il gusto della guerra, compreso che in contesti come quello del Sudan ed in momenti come quello attuale la forza conta più del diritto, trovato nei Toubus al potere in Ciad un possente alleato molto simile a loro e soprattutto si erano arricchite assumendo il controllo di tutto l’oro proveniente dai campi auriferi della provincia e dalle aree contermini.
Perché dunque fermarsi a quel punto quando c’erano tutte le premesse favorevoli per portare le FSR a controllare l’intero complesso nazionale?
La caduta delle città e la prospettiva di nuovi Stati
Così la guerra si è estesa, con fortune alterne, a tutto quello che resta dell’originario Sudan. La capitale Khartum è stata prima presa dai ribelli e poi perduta, mentre il governo nazionale si spostava per precauzione a Port Sudan, molto più ad est.
Di recente in ogni caso anche l’ultima rilevante città del Darfur è caduta nelle mani di quelli che erano un tempo gli Janjawid e ciò significa che a breve scadenza l’indipendenza della provincia e la creazione di un nuovo Stato verranno a quel punto ufficialmente dichiarate ed immediatamente riconosciute da tutti gli attori internazionali che stanno fornendo supporto alla parte localmente vincente.
Verso quattro Sudan e un continente instabile
In quel momento sulla nostra carta geografica dovremo registrare l’esistenza di ben quattro distinti Sudan che avranno preso il posto del grande Sudan originario. Oltretutto, poi, almeno se non intervengono rapidi e radicali cambiamenti, i rapporti reciproci dei quattro rimarranno tutt’altro che buoni.
Che cosa può fare l’Europa?
Che cosa possiamo fare a riguardo? Agendo isolatamente, come Italia, probabilmente proprio nulla, mentre le cose forse potrebbero essere diverse se fosse l’Unione Europea a muoversi, impegnandosi nel contesto di un piano che possa aiutare l’Africa a stabilizzarsi e a evitare per il futuro episodi come quelli che hanno caratterizzato i terribili più recenti venti anni sudanesi. E che tenga nel contempo lontane dal continente nero le tentazioni di sfruttamento di carattere neocoloniale dei cinesi, i corpi armati mercenari dei russi, le ambizioni neo-imperiali ottomane della Turchia nonché il proselitismo dell’integralismo sunnita più fanatico finanziato dai paesi della penisola arabica… L’elenco, che non è certo completo, potrebbe essere molto, molto più lungo!

