Marocco: uno Stato può rifiutare gli aiuti internazionali?

A quattro giorni dal devastante terremoto che ha ucciso oltre 2800 persone, la situazione umanitaria in Marocco sembra ancora assai complicata. Come spesso accade, sono le categorie più vulnerabili a pagare il prezzo più alto, con donne e bambini particolarmente esposti alle conseguenze del sisma. Raggiungere tutte le aree colpite sembra alquanto difficile, specie se si considera che molti dei villaggi distrutti si trovano in zone montuose, e che le vie d’accesso sono gravemente danneggiate. A fronte di una situazione tanto seria, il governo marocchino sta ancora valutando se accettare o meno aiuti umanitari provenienti dalla comunità internazionale, e ha dato il proprio assenso a ricevere assistenza solo da un pugno di Stati politicamente vicini a Rabat.

Il governo ha giustificato la propria decisione sottolineando l’importanza di un coordinamento efficace degli aiuti. L’afflusso incontrollato di uomini e mezzi in contesti emergenziali e l’assenza di un assetto organizzativo efficace possono sortire l’effetto perverso di ostacolare lo sforzo dei soccorritori, incrementando il numero delle vittime. Non a caso, le autorità marocchine sottolineano che l’accesso dei pochi soccorritori stranieri ammessi sarebbe stato concesso sulla base di una “valutazione precisa dei bisogni sul terreno da parte delle autorità”. Pare tuttavia che nella decisione abbiano avuto un ruolo considerazioni legate all’orgoglio nazionale e a fattori geopolitici.

Ci si chiede dunque se sia legittima (e legale, alla luce della normativa internazionale vigente) la decisione di uno Stato di rifiutare aiuti esterni che potrebbero rivelarsi vitali per la popolazione, specie nelle ore immediatamente successive a un sisma, quando la finestra di tempo utile per aiutare quanti si trovino sotto le macerie è drammaticamente ristretta.

Chi decide chi può aiutare?

Va anzitutto premesso che la decisione rispetto a chi possa entrare sul territorio di uno stato colpito da disastro per svolgere operazioni di assistenza spetta alle autorità politiche dello stato stesso. Da ultimo, il principio è stato ribadito dalla commissione per il diritto internazionale delle Nazioni Unite, in un progetto di articoli concernente la protezione delle persone in caso di disastro, adottato nel 2016. Il documento non è giuridicamente vincolante, ma codifica, in larga parte, norme riconosciute di diritto internazionale. L’Articolo 10 ribadisce il ruolo primario dello stato colpito nel dirigere, controllare e monitorare le operazioni di assistenza alla popolazione. Nel commentare la disposizione, la Commissione precisa tale ruolo discende direttamente dal principio di sovranità, al quale si accompagna il divieto per gli Stati terzi di interferire nei suoi affari interni. Rabat ha dunque tutto il diritto di limitare o vietare l’accesso al proprio territorio, come riconosciuto, fra gli altri, dall’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento umanitario.

Il successivo Articolo 11 stabilisce che uno stato investito da un disastro le cui conseguenze eccedano chiaramente le sue capacità di risposta, ha un obbligo di ricercare assistenza esterna. Spetta tuttavia allo stato colpito valutare la gravità della situazione e il suo giudizio, quando sia maturato in buona fede, non può essere messo in discussione. Nonostante le ingenti perdite umane e materiali, il Marocco potrebbe quindi sostenere che le capacità di risposta interne – unitamente ai pochi aiuti esterni ammessi nel paese – siano sufficienti per far fronte all’emergenza, e che non ha dunque il dovere di richiedere ulteriore aiuto all’estero.

Infine, l’Articolo 12 del progetto ribadisce il ruolo centrale dello Stato colpito, il cui consenso è sempre necessario perché attori stranieri possano svolgere operazioni di assistenza umanitaria sul suo territorio. Il disposto, tuttavia, aggiunge che tale consenso “non possa venire negato arbitrariamente”, il che presuppone che lo stato colpito abbia motivazioni ragionevoli per rifiutare l’aiuto. Nel caso del Marocco, il timore che una presenza eccessiva di organizzazioni sul terreno possa generare confusione e ostacolare le operazioni di soccorso potrebbe apparire una giustificazione ammissibile. D’altronde, a fronte di una situazione drammatica, autorizzare l’accesso di soli quattro Stati, non dando riscontro alle offerte di assistenza provenienti da altri paesi, dalle NU e dall’UE, appare invece una scelta discutibile.

“Responsabilità di proteggere” e ingerenza umanitaria

L’Articolo 10 del progetto di articoli precisa che lo Stato colpito ha l’obbligo di assicurare la protezione degli individui che vivono sul proprio territorio e di fornire loro assistenza umanitaria in caso di disastro. La stragrande maggioranza degli Stati prende tale dovere seriamente, ma quali sarebbero le conseguenze in termini giuridici se un governo non potesse o (peggio ancora) non volesse rispettare tale obbligo?

Una situazione del genere si verificò nel 2008, quando il Myanmar (l’ex Birmania) fu colpito da un ciclone devastante che costò la vita a decine di migliaia di persone. Il fenomeno interessò in maniera particolare il sud del paese, abitato dal gruppo etnico Karen, da anni in conflitto col regime militare. Per giorni la giunta si rifiutò di accogliere qualsiasi proposta di aiuto, in parte per una questione di orgoglio nazionale, in parte perché la catastrofe aveva colpito soprattutto un territorio abitato da oppositori politici.

L’alto numero di vittime spinse alcuni paesi occidentali a proporre che della questione fosse investito il Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite. Il rifiuto deliberato di prestare assistenza alle vittime della calamità avrebbe costituito un crimine contro l’umanità, e come tale metteva a repentaglio la pace e la sicurezza internazionali. Il Consiglio avrebbe potuto adottare una risoluzione in cui si imponeva al Myanmar di accettare aiuti esterni, facendo venir meno la necessità del consenso governativo. In assenza di una decisione del Consiglio – che non venne in effetti nemmeno discussa, stante la ferma opposizione della Cina, detentrice del diritto di veto – alcuni attori ventilarono la possibilità che si potesse intervenire ugualmente, applicando la dottrina della “responsabilità di proteggere”. Tale dottrina sosteneva che, in situazioni in cui uno stato si facesse parte attiva nella violazione dei diritti umani fondamentali, altri stati potessero intervenire (anche utilizzando la forza) per ripristinare il rispetto dei diritti. Da ultimo, nessun governo intervenne senza il consenso del Myanmar, ma la pressione politica esercitata spinse le autorità ad accogliere quantomeno alcune offerte di assistenza.

L’attuale situazione in Marocco è ovviamente diversa da quella del Myanmar, ma le motivazioni alla base del rifiuto di accogliere assistenza esterna sembrano almeno in parte sovrapponibili, e invitano ad una riflessione sul difficile bilanciamento fra grandeur nazionalista e la necessità di fornire un aiuto tempestivo ed efficace alle vittime di calamità naturali e antropiche.

Foto di copertina ANSA/CLEMENS BILAN

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