Il regime di occupazione minaccia la democrazia di Israele

Solo la fine dell’occupazione di 56 anni della Cisgiordania, la nascita ivi di uno stato palestinese in rapporti di buon vicinato con Israele e la spartizione negoziata con quello Stato della terra compresa fra il Giordano e il Mediterraneo potranno assicurare l’esistenza di Israele come stato democratico con maggioranza ebraica. Il futuro, tuttavia, con l’espansione degli insediamenti, il numero crescente di coloni ebrei nei territori palestinesi (circa 700 mila di cui oltre 200 mila nella sola Gerusalemme est) potrebbe implicare una scelta esiziale fra uno stato esclusivamente ebraico con i palestinesi privati di ogni diritto, segnato da una perenne guerra interetnica fra arabi ed ebrei, e uno stato binazionale con eguali diritti per i suoi cittadini ma nel quale democrazia e demografia detteranno un futuro di minoranza per gli ebrei.

La situazione in Cisgiordania

Sul piano dei rapporti con i palestinesi, gli accordi di governo in seguito alle elezioni del novembre scorso e il formarsi di una coalizione al potere fra il partito di Netanyahu, i partiti religiosi e l’estrema destra sciovinista, limitano esplicitamente ai soli ebrei il diritto di autodeterminazione sulla terra compresa tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. Sarà estesa la legge civile israeliana alla Cisgiordania, il che equivale all’annessione de jure o de facto della stessa, sotto l’autorità del Ministro delle finanze Smotrich in materia di allocazione della terra, di risorse naturali, di infrastrutture.

In virtù di un regime militare di occupazione come quello in vigore dagli accordi di Oslo del 1993 per la zona C – circa il 60 % della superficie della Cisgiordania stessa, dove vivono i quasi 500 mila coloni israeliani e circa 300mila palestinesi – il diritto internazionale impone di proteggere la popolazione che vi abita, ma qualora vi sia un potere civile in quel territorio non vi è alcun quadro giuridico che vieti il sussistere di due leggi diverse e discriminanti nello stesso territorio, l’una per gli ebrei, l’altra per gli arabi. Ciò avviene in un contesto in cui la violenza di formazioni militanti del mondo palestinese e l’azione di repressione dell’esercito israeliano, soprattutto nelle città del nord della Cisgiordania – Jenin e Nablus – hanno prodotto quest’anno vittime e lutti non piu’ verificatisi dalla fine della seconda intifada nel 2005.

Gli accordi di Oslo traditi

È un regresso profondo dalla filosofia degli accordi di Oslo di 30 anni fa, il cui presupposto era il riconoscimento reciproco dei diritti: quello degli israeliani alla pace e alla sicurezza come specchio di quello dei palestinesi a uno stato degno di questo nome. Da un lato è vano affidarsi alla mera repressione militare della violenza senza offrire un negoziato di pace, anzi esaltando come legittima risposta la volontà di costruire nuove case nelle colonie in Cisgiordania; in più consentendo il ritorno di coloni in alcuni insediamenti sgomberati anni or sono, legalizzando retroattivamente altri insediamenti illegali e tollerando le ripetute violenze squadristiche dei coloni stessi contro località palestinesi e i loro abitanti che li spingono ad abbandonare loro terreni e fonti di sostentamento. Dall’altro, l’illusione di piegare Israele con la violenza, riscattando l’impotenza dell’Autorità nazionale palestinese indebolita nei suoi apparati e fortemente delegittimata nella sua stessa opinione pubblica anche per il continuo rinvio di elezioni dal 2006, dovrebbe essere chiara.

Un profondo scisma attraversa e lacera intanto la società israeliana. Lo dimostrano le proteste massicce di vasti settori dell’opinione pubblica, prima “depoliticizzati” o indifferenti rispetto al degrado antidemocratico del paese, con forme di quasi “obiezione di coscienza” di accademici, vasti settori del business, reparti della riserva dell’esercito. In Israele, dove non vi è costituzione per ragioni complesse legate alla nascita del paese, al conflittuale rapporto fra stato e religione, e al groviglio della sua accidentata storia di 75 anni, l’unico organo abilitato a valutare la conformità di atti di governo alle Leggi fondamentali è la Corte Suprema. I partiti al potere insistono per modificarne il potere consentendo ad una semplice maggioranza parlamentare di annullare eventuali sentenze della stessa a loro sgradite.

Da stato democratico a stato ebraico

Già nel 2018 il Parlamento israeliano aveva approvato la controversa “legge della nazione“, che sanciva nei fatti la transizione di Israele da “stato ebraico e democratico” – un ossimoro secondo alcuni; un tentativo in parte riuscito secondo altri di conciliare lo “Stato degli ebrei” concepito dai padri fondatori del sionismo, uno stato cioè dove gli ebrei potessero autodeterminarsi in una nazione, con il principio di una democrazia per tutti i suoi cittadini – ad uno “stato ebraico”. La legge violava lo stesso spirito della Dichiarazione di indipendenza del ’48. Con Israele definito dalla legge “stato-nazione del popolo ebraico” il diritto all’autodeterminazione è limitato agli ebrei. Ciò significa disconoscere il fatto che vi è in Israele un’altra nazione o etnia che costituisce un quinto del paese ma che nulla può dire circa il carattere dello stato di cui i suoi membri – gli arabi – sono cittadini con pari diritti. Pari diritti individuali sì, ma non i diritti collettivi di una minoranza nazionale, che dovrebbe potere conseguire attraverso strumenti legislativi e atti concreti uno status non inferiore a quello degli ebrei israeliani.

Con il nuovo governo formatosi dopo le elezioni del novembre scorso, nel quale è decisivo il peso dei due partiti ultraortodossi e dei fondamentalisti del “Sionismo religioso”, con forti pulsioni verso il tribalismo, l’intolleranza, Israele non sarà piu’ neppure sul piano normativo lo “stato degli ebrei”, né tanto meno lo “stato degli israeliani”, una democrazia piena ed egualitaria per tutti suoi cittadini. Diventerà uno “stato ebraico”, sotto la spinta di una bellicosa minoranza del paese. Quali i passi più significativi se gli accordi di coalizione pattuiti fra il Likud e gli altri partiti saranno pienamente attuati? In essi si insiste compulsivamente sull’identità “ebraica” del Paese. Si inventano agenzie parti di ministeri dedicate a tal fine, in particolare una Autorità per l’identità ebraica e un incarico concernente i rapporti fra le scuole e la società civile affidati a un partito omofobo e integralista.

Come molti analisti osservano, e come la protesta di vasta opinione pubblica sottolinea, la “rivoluzione” giudiziaria in atto è soltanto un mezzo, il fine ultimo essendo l’annessione dei territori e la sovranità piena di Israele su di essi.

La società civile unisce le “due nazioni”

Amos Oz, il grande scrittore israeliano, sosteneva che nel porre fine al conflitto che attanaglia i due popoli un accordo politico che ne risolvesse i punti dirimenti – confini fra i due stati, insediamenti israeliani nei Territori palestinesi, status di Gerusalemme, rifugiati – dovesse precedere il processo di riconciliazione umana, culturale, antropologica fra le parti; ne fosse, anzi, condizione irrinunciabile. Il dilemma resta irrisolto e segna ancora pesantemente quel conflitto. Per un complesso di ragioni, dal trattato di pace firmato ad Oslo nel 1993 ai successivi negoziati di Camp David, Taba, Annapolis, fino al tentativo ultimo di mediazione diplomatica condotta dall’Amministrazione Obama nel 2014 – interrotti via via da scoppi ripetuti di violenza terroristica e da fasi di guerra guerreggiata – quel meccanismo virtuoso che avrebbe portato prima all’accordo formale di pace e poi alla solida e duratura coesistenza è fallito.

La società civile nelle due nazioni – Israele e Palestina – è però attiva con una miriade di ong dedite a rompere la separazione e la crescente radicalizzazione soprattutto dei giovani. Esse agiscono in una varietà di ambiti – educativo, sanitario, ambientale, imprenditoriale, interreligioso – con un comune denominatore: opporsi alla percezione “dell’altro” come nemico. Contro lo scetticismo di molti rassegnati ad un conflitto tra nemici che appaiono irriducibili, dominati dall’isteria nazionalista e dal rifiuto delle ragioni dell’altro, resta tuttavia forte l’impegno di tali associazioni. Fra queste le numerose ong israelo-palestinesi, federate sotto l’egida di Alliance for Middle East Peace che ha promosso agli inizi di giugno un incontro a Gerusalemme. Circa 600 persone hanno ascoltato interventi di membri attivi in molte di quelle ONG, oltre che di accademici, diplomatici ed esperti del campo. Un lavoro, continuo, sotterraneo, spesso ignorato, ma prezioso, di movimenti della società civile dediti alla coesistenza.

Foto di copertina EPA/ABIR SULTAN

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