Il 2023 è stato un anno difficile che termina con due sanguinosi conflitti internazionali ancora irrisolti e i cui sviluppi influenzeranno pesantemente il futuro del sistema internazionale.
L’anno che si apre è soprattutto un anno elettorale: dalla Russia, dove il risultato dell’elezione del futuro Presidente sembra ad oggi scontato, agli Stati Uniti dove invece la competizione è apertissima, non solo tra i due attuali “front runners”, ma anche per il possibile emergere di uno o più “dark horses”.
Quest’anno vedremo anche l’elezione di un nuovo Parlamento Europeo, in un periodo di relativa debolezza delle grandi famiglie politiche che hanno sinora guidato i destini europei e di crescita di formazioni nazionaliste e populiste.
È difficile che, in un simile scenario, vengano privilegiate visioni di largo respiro o quanto meno lungo periodo e vengano tracciati grandi disegni di ordine e di governo internazionale. Eppure è quello di cui il mondo avrebbe più bisogno.
Nei mesi scorsi abbiamo visto emergere la sfida del cosiddetto “Sud Globale” contro quel che rimane della vecchia leadership occidentale. Ma in realtà questa è più un’immagine propagandistica che una realtà operativa. Il Sud Globale è una sorta di etichetta retorica che ricopre una realtà molto differenziata, ricca di profonde contraddizioni e persino di feroci rivalità.
A capo del Sud Globale si sono posti i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), che quest’anno si allargano ad Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Iran, Etiopia ed Argentina. Altri allargamenti potrebbero avvenire in futuro.
È un Sud molto virtuale, che spazia dal Circolo Polare Artico, con la Russia, all’Antartico con l’Argentina, ma che è, in massima parte, situato ben a Nord dell’equatore (con le sole eccezioni di Brasile, Sud Africa ed Argentina). Ma soprattutto è una realtà politica molto confusa. Questi paesi, a parte rivendicare un maggior ruolo e una maggiore fetta di potere internazionale, non hanno sinora delineato un loro disegno di nuovo sistema internazionale.
Ad oggi, il loro maggior risultato è stato quello di svuotare l’utilità e il ruolo del G20, ridando così fiato e scopo all’alleanza dei paesi occidentali guidati dagli USA e dal G7 (che ha ormai perso definitivamente la Russia, che lo aveva per breve tempo trasformato in G8, e non è riuscito ad includere la Cina).
Il sistema della Nazioni Unite è paralizzato al livello del Consiglio di Sicurezza dai contrasti tra i 5 detentori del diritto di veto sulle guerre in Ucraina e in Medio Oriente ma, in compenso, non sembra avere alternative. La Cina ha apparentemente una qualche ambizione di ridisegnare questo sistema a sua immagine, ma la sua visione sino-centrica non raccoglie ancora grandi consensi. Al contrario, suscita timori e resistenze, in primo luogo nel suo vicinato, in Asia. Principalmente, il disegno cinese ha ancora troppe caratteristiche “imperiali”.
C’è chi vedrebbe con favore la formazione di due blocchi globali contrapposti, nella speranza di rieditare i meccanismi e gli equilibri della vecchia Guerra Fredda, su linee e con protagonisti diversamente aggregati. Ma la situazione sembra troppo incerta. Nel Sud Globale è ancora forte la presenza ideologica del “non allineamento”, che spesso giustifica anche la forza di ambizioni nazionaliste contrapposte. Questi paesi non vogliono essere parte di un blocco integrato, guidato da Pechino. D’altronde, la capacità e la volontà cinese di impegnarsi nella gestione delle crisi internazionali è ancora molto limitata, come abbiamo visto in occasione dell’ultima pandemia, nonché nel prudente assenteismo di fronte alle guerre in Ucraina e Medio Oriente.
L’iniziativa resta perciò ancora nelle mani del vecchio ed indebolito Occidente, che tuttavia non è solo meno potente di ieri, ma anche meno propenso ad esercitare attivamente la sua leadership e a sopportarne i grandi costi. Certo, ha reagito bene all’aggressione russa, ma ora sembra incerto sui futuri sviluppi della guerra: puntare alla sconfitta di Putin o a mantenere una situazione di stallo? Anche in Medio Oriente regna l’incertezza. Americani ed europei vorrebbero mettere fine al conflitto Israelo-palestinese con la creazione di due Stati separati e sovrani: ma questa soluzione non raccoglie consensi sufficienti né in Israele né tra i palestinesi. Può essere imposta dall’esterno? E a quali costi?
Purtroppo, oggi la gestione delle crisi e dei conflitti richiede costosi interventi diretti, dall’esito incerto e politicamente controversi, nonché la cooperazione attiva di numerose, ambiziose e litigiose potenze regionali.
Abbiamo quindi di fronte un anno difficilissimo, durante il quale l’obiettivo minimo è quello di mantenere in vita quel che resta degli equilibri internazionali.
Un ruolo chiave potrebbe essere giocato, a sorpresa, dall’Unione Europea, che è un po’ il “cigno nero” di questa situazione: un’entità da cui nessuno sembra aspettarsi niente di risolutivo, ma che, in realtà, negli ultimi anni, ha sorpreso un po’ tutti per la sua resilienza e per la determinazione con cui è riuscita ad affrontare molte gravissime crisi, interne ed estere. Vorremmo essere nuovamente sorpresi.