Nel novembre 2022, la presidente di Taiwan Tsai Ing-Wen rassegnava le dimissioni dalla guida del Partito democratico progressista (DPP), in reazione ai risultati deludenti del suo partito alle elezioni locali. La sua ricandidatura alle elezioni generali previste nel gennaio 2024 appare ora in bilico, con il partito sull’orlo della scissione per le tensioni con la corrente più radicale guidata da William Lai. Non è raro sentir dire a Taipei che la linea dell’amministrazione Tsai metta a rischio l’economia, visto il dialogo inesistente con Pechino a causa delle precondizioni incrociate che lo rendono impossibile.
Tsai si dice pronta a parlare con Xi, a patto che Pechino non chieda precondizioni e riconosca l’esistenza di due entità separate e non interdipendenti. Xi chiede invece come precondizione il riconoscimento del cosiddetto “consenso del 1992“, un accordo preso in forma indiretta da rappresentanti del Partito comunista cinese (Pcc) e del Kuomintang (Kmt – Partito nazionalista di Taiwan) sull’esistenza di una sola Cina, pur senza stabilire quale. È il cosiddetto principio “una Cina, diverse interpretazioni” ancora seguito dal Kmt. Per il Pcc, però, resta sempre più solo la prima parte della definizione: “una Cina”. Ed essendo Pechino riconosciuta da quasi la totalità dei paesi al mondo (con la defezione dell’Honduras ora solo in 13 hanno relazioni diplomatiche ufficiali con Taipei), si dà per scontato che Taiwan debba essere presto essere “riunificata” all’interno del territorio della Repubblica Popolare.
Ritorsioni cinesi
In vista delle elezioni, però, oltre a quelle militari Pechino potrebbe usare anche altre tipologie di armi. A partire da quelle normative. Per la prima volta, un cittadino taiwanese sarà processato per secessionismo. Si tratta di Yang Chih-yuan, attivista di 33 anni arrestato lo scorso agosto a Wenzhou subito dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei. Allora era apparsa una chiara ritorsione all’incontro fra Pelosi e Lee Ming-che, altro attivista taiwanese che aveva passato qualche anno nelle carceri continentali. Dopo quasi 9 mesi, la Procura suprema del popolo di Pechino ha comunicato l’incriminazione di Yang. La sua colpa sarebbe quella di aver sostenuto un referendum sull’indipendenza e aver partecipato alla fondazione del Partito Nazionalista di Taiwan, che persegue una dichiarazione di indipendenza formale e l’adesione di Taipei alle Nazioni Unite.
Attività svolte oltre un decennio fa a Taiwan, ma che ora possono costare a Yang da 10 anni all’ergastolo. O persino una condanna a morte, se i giudici sentenzieranno che ha causato danni particolarmente gravi alla sovranità nazionale cinese. Le accuse a Yang mostrano la volontà di Pechino di dare una base legale alla sua pretesa di sovranità su Taiwan. E si accompagnano a mosse come l’inserimento di figure politiche in una lista nera di secessionisti, nel tentativo di recidere i legami tra il partito di maggioranza e il mondo imprenditoriale taiwanese che fa affari in Cina continentale. Nonostante una netta diminuzione dall’inizio del Covid, i taiwanesi che vivono e lavorano sull’altra sponda dello Stretto sono ancora più di un milione. Vicende come quella di Yang possono avere un impatto anche più profondo delle manovre militari sull’opinione pubblica taiwanese.
C’è poi il fronte economico. L’economia taiwanese è entrata in recessione con una contrazione del pil pari al -3% nel primo trimestre del 2023. Pesa soprattutto il rallentamento dell’export a causa di una domanda indebolita, compresa quella della Cina continentale che rappresenta sempre il primo mercato di destinazione delle esportazioni taiwanesi. Se il Kmt riuscisse a spostare il focus delle elezioni presidenziali sul fattore economico, qualora l’andamento continuasse a essere negativo, rispetto al tema identitario potrebbe avere maggiori opportunità di successo.
I partiti si preparano alle elezioni del 2024
Dopo una lunga discussione interna, il Kmt ha scelto come suo candidato Hou Yu-ih, sindaco di Nuova Taipei ed ex poliziotto, piuttosto popolare anche tra l’elettorato “neutrale”. Qualche settimana fa, si è scoperto per la prima volta sui rapporti intrastretto ribadendo la validità del “consenso del 1992” e ribadendo la necessità di Taiwan di non privarsi dell’etichetta “Repubblica di Cina”, paragonando il rapporto tra i due nomi e concetti politico-identitari come a quello tra vetro e acqua. Alludendo dunque alla sicurezza e allo status quo tutelato grazie al mantenimento del nome Repubblica di Cina e al mancato perseguimento dell’indipendenza formale. Battuto al fotofinish Terry Gou, patron di Foxconn, principale fornitore di iPhone per Apple. Ricevuto da Donald Trump alla Casa Bianca nel 2019, ha enormi interessi in Cina continentale e si presentava come l’uomo giusto per garantire stabilità sullo Stretto. Non è bastato a convincere il Kmt, che ha scelto Hou anche per la sua maggiore “taiwanesità”.
Il Dpp si presenta invece con Lai, ritenuta una figura più radicale di Tsai. Se la presidente uscente ha sempre dichiarato che non serve una dichiarazione di indipendenza in quanto Taiwan è già indipendente come Repubblica di Cina, Lai ha in passato rilasciato dichiarazioni a favore del passo formale, smussando la sua retorica una volta diventato vicepresidente e pare ora allineato a Tsai. Ma anche nelle scelte lessicali è più audace, il che potrebbe acuire la frattura con Pechino e alimentare i sospetti di chi nel Pcc (che guarda con ostilità a qualsiasi “internazionalizzazione” del dossier) pensa che Taiwan stia tentando di guadagnare sempre più spazio sul fronte diplomatico globale per mirare a un riconoscimento della sua sovranità. Lai ha descritto il voto, in risposta alla linea del Kmt, come una scelta tra “totalitarismo e democrazia”, alludendo al fatto che un’eventuale vittoria dell’opposizione possa aprire a una futura “riunificazione”.
In mezzo ci sono i taiwanesi, che vorrebbero in massa il mantenimento dello status quo. Termine e concetto al quale, però, gli attori in campo sembrano sempre più dare interpretazioni diverse. Dopo il voto, in ogni caso, è lecito aspettarsi che comunque vada da qui a gennaio 2024 il pressing di Pechino si alzi. Sul fronte diplomatico e militare in caso di vittoria del Dpp, sul fronte politico col tentativo di sottoscrivere nuovi accordi e ottenere garanzie sostanziali in caso di vittoria del Kmt.
Foto di copertina EPA/RITCHIE B. TONGO