Donald Trump incriminato ma non sconfitto

Un nuovo record per Donald Trump: in 160 anni di scandali presidenziali – li conta il New York Times, a partire dalla Guerra Civile – non era mai successo che un ex presidente fosse incriminato per reati comuni. Giovedì 30 marzo, dopo una ridda di falsi annunci e attese studiate per stemperare le tensioni create dai falsi annunci, Trump è stato formalmente messo sotto accusa a Manhattan. Martedì 4 aprile, dovrebbe comparire davanti a un giudice, per sentirsi notificare le accuse ed essere ritualmente arrestato e rinviato a giudizio (e contestualmente rimesso in libertà su cauzione).

C’è preoccupazione per che cosa accadrà. All’inizio della settimana scorsa, il magnate ex presidente aveva diffuso la falsa notizia del suo imminente arresto, mettendo in subbuglio la sua base e creando i presupposti per proteste e tumulti, che ci sono state, pur se su scala modesta. Non è però escluso che New York sia teatro di manifestazioni insurrezionali la prossima settimana, anche se molti analisti pensano che Trump abbia montato uno spettacolo mediatico sulla sua incriminazione soprattutto per raccogliere fondi per la sua campagna (e qualche milione di dollari è arrivato).

Se il magnate ex presidente si presenterà volontariamente in aula, come in passato fecero suoi sodali come Steve Bannon e Roger Stone, gli verrà probabilmente risparmiata l’umiliazione delle manette. È una prassi cui sono soggette, ogni giorno, a New York, centinaia di persone e che serie televisive alla Law & Order e film polizieschi hanno ormai reso familiare anche per noi. Ma non è escluso che Trump cerchi provocatoriamente l’immagine shock.

L’impatto sulla corsa alla nomination e alla presidenza

Joe Biden e i democratici sono in solluchero, ma non lo danno a vedere (e la stampa liberal gioca, anzi, a fare la garantista). Ron DeSantis e i repubblicani vecchio stampo masticano amaro e hanno maschere di circostanza. L’incriminazione di Trump può affossarne l’ambizione di ritorno al potere; ma, nell’immediato, può galvanizzare la sua base ‘anti-sistema’ e rendergli più agevole la strada alla nomination repubblicana, costringendo i suoi rivali a manifestargli solidarietà politica.

Però, il cammino di qui alle primarie – nove mesi – e alle elezioni del 5 novembre 2024 – 18 mesi – è ancora lungo e denso di incognite. Per Trump, che potrebbe essere solo all’inizio di uno slalom fra le disavventure giudiziarie; e anche per Biden, il cui tasso di approvazione, dice un sondaggio dell’Ap, è sui minimi storici della sua presidenza, tra inflazione, banche in crisi, migranti e tensioni con Russia e Cina.
Biden ha pure dovuto recentemente constatare che le sue doti di mediatore non sono taumaturgiche: per la prima volta da quando è alla Casa Bianca, ha dovuto ricorrere al diritto di veto per bloccare un’iniziativa repubblicana.

Il caso e i capi di accusa

A carico del magnate, oltre trenta capi d’accusa, nella vicenda del pagamento in nero di una somma di 130 mila dollari alla pornostar Stormy Daniels, al secolo Stephanie Clifford. Il versamento avvenne nel 2016, in piena campagna elettorale. I soldi non erano destinati a compensare prestazioni sessuali, ma a comprare il silenzio di Stormy sui rapporti fra i due risalenti al 2010, quando Trump non immaginava ancora di scendere in politica, ma era già sposato con Melania, all’epoca incinta del loro unico figlio Barron.

L’inchiesta andava avanti da anni ed era basata sulla testimonianza dell’ ‘ufficiale pagatore’, cioè l’ex avvocato personale di Trump, Michael Cohen. Alvin Bragg, procuratore generale di Manhattan, un democratico, aveva riunito un Grand Jury, davanti al quale sono comparsi, fra gli altri, Cohen, legale paraninfo, nel frattempo già condannato e radiato dall’albo, e la Daniels, alias Clifford.

Le reazioni di Trump non si sono fatte attendere: l’incriminazione è “una persecuzione politica” e “una interferenza nelle elezioni mai vista prima nella storia”. Pure esponenti repubblicani critici verso l’ex presidente si sono allineati nel prenderne le difese d’ufficio: l’ex suo vice Mike Pence giudica l’incriminazione “un cattivo servizio alla Nazione”, perché contribuirà a polarizzare ulteriormente l’opinione pubblica; e diversi Congressman repubblicani tengono bordone a Trump.
L’ex presidente, del resto, aveva già mostrato di volere sfruttare la vicenda a proprio vantaggio: sabato 26 marzo, aveva scelto di tenere il primo meeting della sua campagna a Waco, in Texas, cittadina divenuta famosa nel 1993 per la strenua e letale resistenza – 82 vittime – d’una congrega di davidiani al rispetto della legge e alle forze dell’ordine.

I filoni d’inchiesta ancora aperti

Trump è così divenuto il primo ex presidente degli Stati Uniti incriminato per reati penali, dopo essere già stato il primo presidente sottoposto a due procedimenti di impeachment, entrambi risoltisi, per i democratici, in un buco nell’acqua. La decisione della procura di New York avrà inevitabilmente impatto sul tentativo del magnate di ottenere di nuovo la nomination repubblicana e riconquistare la Casa Bianca.
Eppure, erano 40 anni che Trump, imprenditore, impresario, showman, sciupafemmine, politico, navigava nei meandri della giustizia senza mai essere rinviato a giudizio.

Ad andare per prima a dama, è quella in apparenza meno grave fra le inchieste giudiziarie in atto nei suoi confronti. Le ‘scappatelle’ del magnate, con pagamenti in nero annessi, appaiono, in fondo, poca cosa rispetto alle sue responsabilità nell’insurrezione del 6 gennaio 2021, quando migliaia e migliaia di facinorosi da lui sobillati diedero l’assalto al Campidoglio per indurre senatori e deputati a rovesciare il risultato delle presidenziali del 3 novembre 2020; o alle pressioni esercitate sui leader della Georgia perché gli “trovassero i voti” necessari e mancanti per aggiudicarsi lo Stato; o ancora alla mancata consegna agli Archivi Nazionali di centinaia di documenti classificati malamente custoditi nella sua dimora di Mar-a-lago in Florida; o, infine, alla spregiudicata gestione, finanziaria e fiscale, della Trump Organization, la holding di famiglia.

Tutte queste indagini stanno procedendo, l’una separatamente dall’altra. Due Grand Jury sono stati convocati, uno federale e uno della Georgia: sono stati chiamati a testimoniare, fra gli altri, i legali dell’ex presidente e il suo ex vice Pence, con cui Trump ruppe dopo il 6 gennaio. Gli avvocati del magnate, in ogni sede, inscenano battaglie procedurali, per bloccare o rallentare i procedimenti. A New York non ci sono riusciti.

Foto di copertina EPA/ADAM DAVIS

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