La lunghissima notte della Turchia

È difficile spiegare a parole quale sia la sensazione provocata da un terremoto di magnitudo superiore a 7. La terra che si sposta sotto di sé, scandita dal rombo intermittente provocato dal tremore sincrono di materiali diversi, è un’esperienza totalizzante, ineluttabile. Nella notte del 6 febbraio, per le milioni di persone che abitavano una zona di circa 400 km2, dalla provincia turca di Hatay a quella siriana di Aleppo, questa è diventata un’esperienza collettiva.

A Gaziantep, città di accoglienza per centinaia di migliaia di rifugiati siriani, ma anche il luogo dove questa coesistenza genera le più forti tensioni, dopo la prima scossa di magnitudo 7.8 delle 4.17 con epicentro a Pazarcık (Kahramanmaraş), a 50 km di distanza e 8 km di profondità, interi quartieri si sono riversati nelle strade nel cuore della notte, cercando rifugio nelle auto o nei parchi. Migliaia di persone si sono ritrovate con i piedi nella neve vecchia di qualche giorno cercando di riscaldarsi tendendo le mani verso fuochi improvvisati intorno ai quali ci si è stretti aspettando un’alba che –era già chiaro- sarebbe sorta su paesaggi ormai mutati.

Quando la terra ha tremato ancora, alle 13.24, con una magnitudo di 7.6 a Elbistan (Kahramanmaraş), la città ancora in attesa si è fermata definitivamente e l’emergenza si è rivelata destinata a rimanere. Anche i più fortunati – tutti coloro che non sono stati impegnati nei soccorsi dei propri cari – si sono trovati catapultati in una nuova realtà dominata da esigenze pressanti: come evadere dalla morsa del freddo e dove dirigersi, nella quasi totale mancanza di mezzi di trasporto, ora che la propria casa non sembrava più essere il luogo sicuro che aveva una volta rappresentato.

L’instabile penisola anatolica

I terremoti sono per loro natura imprevedibili, ma, nel caso della Turchia, non rappresentano un evento insolito: la penisola anatolica si colloca infatti all’incrocio tra le tre placche tettoniche euroasiatica, araba e africana e presenta per questo due faglie interessate da attività sismica, una nel nord del Paese che dallo stretto dei Dardanelli costeggia il Mar Nero e l’altra che da est, nei pressi del confine con la Siria, procede diagonalmente per ricongiungersi con la faglia nord anatolica nella provincia di Erzincan.

Se nel passato si annoverano numerosi terremoti che hanno significativamente modificato l’aspetto di Istanbul, situata sulla prima faglia, nella storia recente è stata la faglia est-anatolica a mostrare la maggiore attività sismica. Proprio ad Erzincan, non distante dal Mar Nero, nel 1939 si è verificato uno dei più intensi terremoti della storia turca -l’unico paragonabile alle scosse di lunedì scorso – che ha registrato una magnitudo di 7.8 e oltre 30 mila morti. Anche nel 1999, nell’arco di tre mesi, da agosto a novembre, si sono verificate nella zona del Mar Nero tre scosse di magnitudo superiore a 7 che hanno provocato decine di migliaia di morti nelle provincia di Izmit.

Questa drammatica occorrenza ha segnato profondamente il Paese, contribuendo al successo elettorale del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) alle elezioni del 2002 come conseguenza dell’incapacità del governo di gestire l’emergenza. Negli anni successivi la ritrovata consapevolezza sui rischi dei terremoti sul suolo turco ha portato all’approvazione di nuove regolamentazioni antisismiche per gli edifici che non hanno però trovato una larga implementazione, come denunciato da addetti del settore e anche dallo stesso Presidente a seguito del terremoto che ha colpito la città di Van del 2011 causando centinaia di morti. Tuttavia questo non ha impedito allo stesso governo di approvare nel 2018 un condono edilizio che ha avuto l’effetto di legittimare la spinta indiscriminata ad edificare per sopperire alla debolezza economica sui mercati internazionali.

È tuttavia la prima volta che i terremoti colpiscono il sud-est della Turchia con tale intensità. Il sisma che ha interessato nei giorni scorsi Kahramanmaraş è infatti il prodotto di milioni di anni di spostamenti della placca araba verso nord che hanno compresso la penisola anatolica verso la placca euroasiatica. Questo processo geologico ha rilasciato lo scorso 6 febbraio una quantità di energia paragonabile ad un’esplosione che ad oggi ha causato quasi 35 mila persone – un numero che si prevede destinato a raddoppiare.

La risposta umanitaria

Il Presidente turco Erdoğan, nell’esprimere il suo cordoglio alle vittime del terremoto, ha descritto gli eventi di lunedì come fenomeni naturali incontrollabili, frutto del “destino”. Queste parole hanno generato una forte indignazione tra tutti coloro che sostengono che si sarebbe invece potuto fare di più per evitare la tragedia. Tuttavia la prossimità dell’epicentro alla superficie, la tipologia di faglia e la presenza di numerosi centri abitati in tutta l’area sono considerati da numerosi esperti sismologi come il peggior scenario possibile. C’è però da aspettarsi che la riposta del governo a questa crisi si rivelerà determinante per le scelte dei cittadini turchi chiamati alle urne il prossimo maggio.

Ad aggiungersi alla distruzione e ai decessi ci sono le difficoltà legate all’intervento umanitario in condizioni climatiche avverse, specialmente nel nord della Siria; area interessata, oltre che dagli effetti del sisma, anche da un fragile equilibrio geopolitico. Se da una parte il regime di Assad va consolidandosi, nelle province vicine al confine rimane forte la presenza militare turca giustificata da preoccupazioni securitarie ritornate in primo piano a seguito dell’attentato terroristico ad Istanbul del novembre scorso. In quest’area soggetta a più di un decennio di conflitto, ora apparentemente abbandonata a sé stessa, la ricostruzione e il ritorno alla normalità dovrà attendere ancora.

In tutte le aree colpite, la solidarietà umana è stata la prima forma di soccorso, in attesa di una risposta governativa che tardava ad arrivare: dalla corsa frenetica nel contattare i propri conoscenti alla condivisione di un pezzo di pane caldo, ognuno ha messo a disposizione quello che aveva. Le moschee hanno ospitato per giorni famiglie spaventate dall’arrivo del buio e del gelo, ma non disposte ad allontanarsi dai propri cari, dai propri affetti e dalla propria città; sale ricevimenti sono state prontamente messe a disposizione per essere trasformate in rifugi; ristoranti e bar che fino al giorno prima ospitavano musica live hanno convertito le proprie cucine per sfamare gli sfollati; gli alberi e le panchine dei numerosi parchi di Gaziantep sono diventati con un po’ di ingegno degli accampamenti di fortuna per ripararsi dal maltempo.

Anche ora, nelle soleggiate città della costa crudelmente lontane dall’atmosfera post-apocalittica che aleggia nel sud-est del Paese, i centri allestiti per l’emergenza pullulano di volontari e le strade sono tappezzate da un messaggio semplice e profondo: Türkiye geçmiş olsun, “che tu possa guarire presto”.

Foto di copertina EPA/NECATI SAVAS

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