«Prepariamo i test nucleari: se gli Stati Uniti li faranno, dovranno essere pronti anche i nostri». Così Putin, dopo l’annuncio di Donald Trump a Seul, qualche giorno fa, sulla ripresa della sperimentazione di ordigni nucleari. Anche la Cina fa capire che, se americani e russi passassero dalle parole ai fatti, i cinesi non si tirerebbero indietro. Cosa ti aspetti?
Questa dichiarazione di Trump a proposito della ripresa dei “test nucleari”, come altre del presidente americano, non è facile da decifrare. Permane infatti l’interrogativo se Trump intendesse riferirsi a test di armi in grado di trasportare testate nucleari o invece proprio a esperimenti con esplosioni di ordigni nucleari.
La prima ipotesi è considerata possibile perché Trump ha fatto una dichiarazione estemporanea, poco dopo l’annuncio da parte della Russia dell’effettuazione di test su due nuovi vettori per il trasporto di testate nucleari: un drone sottomarino in grado, secondo i russi, di colpire le coste occidentali degli Stati Uniti, e un missile, capace, sempre secondo Mosca, di penetrare le difese americane.
Rimane però la possibilità che Trump intenda invece riferirsi proprio alla ripresa di test con esplosioni di ordigni nucleari. In questo caso si tratterebbe di una decisione molto seria e grave, perché significherebbe la fine della moratoria volontaria su questo tipo di test a cui gli Usa si attengono dal 1992. Va ricordato, peraltro, che in questo millennio nessuna potenza dotata di arsenali nucleari ha fatto test nucleari, a parte la Corea del Nord, che peraltro ha cessato di effettuarli, sotto pressione internazionale, nel 2017.
Se Washington avviasse un programma di test nucleari, Mosca, come ha varie volte annunciato, potrebbe a sua volta riprenderli. Il Cremlino ha anzi molto probabilmente preso in considerazione l’effettuazione di un test nucleare a scopo intimidatorio nei confronti dell’Ucraina e dei paesi occidentali che l’appoggiano.
La fine della moratoria sui test da parte degli Usa sarebbe anche un duro colpo al regime di non proliferazione nucleare, perché i Paesi che hanno rinunciato volontariamente alle armi nucleari, aderendo al Trattato di non proliferazione nucleare, continuano a chiedere che, come segno di un’effettiva volontà di frenare quanto meno la corsa al riarmo, entri in vigore il Trattato per il bando totale dei test nucleari (CTBT). Il CTBT è stato adottato dall’Assemblea Generale dell’Onu nel 1996 e finora ratificato da ben 178 Paesi, ma non è potuto entrare in vigore perché vari Paesi, inclusi Usa e Cina, si sono rifiutati di ratificarlo (la Russia ha ritirato la ratifica nel 2023).
Il più veloce al mondo. A questo ritmo, la Cina sta ampliando l’arsenale nucleare. Lo dice la CNN in un’analisi: dal 2020, oltre il 60% delle 136 strutture collegate alla produzione di missili hanno mostrato segni di crescita. La Cina, tra l’altro, rifiuta di intrattenere colloqui seri sul controllo delle armi: non c’è nessuna trasparenza. Anche qui, cosa dobbiamo aspettarci?
Il servizio della CNN è basato essenzialmente su un’analisi dettagliata delle immagini satellitari, oltre che di mappe e di altri documenti. Secondo la CNN le evidenze raccolte mostrerebbero un enorme aumento sul territorio cinese dei siti di produzione di missili. Sono state identificate 136 strutture, fra fabbriche e centri di ricerca e per i test. È chiaro che la Cina sta sviluppando, a tempi forzati, un ampio arsenale di missili tecnologicamente avanzati con il palese obiettivo di acquisire una capacità di deterrenza nei confronti degli Usa per poter acquisire una posizione egemonica in Asia.
Va ricordato che dal 2012, sotto la leadership di Xi Jinping, la Cina sta investendo massicciamente nella difesa. Secondo il SIPRI, uno dei centri più importanti che monitora l’evoluzione degli arsenali nucleari, la Cina aggiunge ogni anno circa 100 testate nucleari al suo arsenale. Il numero delle testate cinesi rimane comunque di molto inferiore a quello degli Stati Uniti e della Russia, che insieme ne detengono circa il 90%. La Cina al momento ha probabilmente circa 600 testate nucleari e, secondo alcune stime, potrebbe raggiungere anche le mille testate entro cinque anni.
A Bruxelles, alla Conferenza dell’Unione europea sulla non proliferazione e il disarmo 2025, organizzata per l’Ue dallo IAI, esperti provenienti da governi, organizzazioni internazionali e istituti di ricerca di tutto il mondo si sono riuniti per discutere vari aspetti di importanza centrale per la strategia di controllo degli armamenti dell’Unione europea: le armi chimiche, biologiche e nucleari, la sicurezza spaziale e le tecnologie emergenti. Ieri ha aperto questa importante kermesse internazionale Rafael Grossi, direttore generale dell’International Atomic Energy Agency. Cosa ha detto di importante?
Grossi ha sottolineato soprattutto che l’impegno dell’Agenzia, nei confronti del programma nucleare iraniano è entrato in una fase completamente nuova per due ragioni. La prima sono naturalmente i bombardamenti israeliani e americani nel giugno di quest’anno ai siti nucleari iraniani. Questo – ha detto Grossi – rende estremamente difficile per l’Agenzia continuare a svolgere la sua missione di controllo del programma nucleare iraniano. Sono state infatti gravemente danneggiate le principali infrastrutture nucleari a Isfahan, Natanz e Fordow, che l’Agenzia ispezionava su base regolare e che ora sono interdette a ogni accesso. Lo scontro militare ha ovviamente costretto l’Agenzia a ritirare i suoi ispettori.
Dopo l’attacco – e questa è la seconda ragione che preclude effettive verifiche dello stato del programma nucleare – l’Iran ha sospeso ogni collaborazione con l’Agenzia e ha approvato una legge che impedisce ispezioni in conformità con gli standard richiesti dall’Agenzia perché le sottopone a una serie di condizioni, compresa l’approvazione al massimo livello politico, che le renderebbero inefficaci.
L’Agenzia ha quindi avviato complicati negoziati con Teheran che sono di recente sfociati in una serie di “intese tecniche” – così le ha chiamate Grossi, per segnalarne la portata limitata – che hanno consentito all’AIEA di rientrare in Iran. Finora sono state effettuate una decina di ispezioni, ma non nei siti di maggiore importanza strategica colpiti dai raid di Israele e Usa.
Grossi ha voluto in sostanza sottolineare l’impegno dell’Agenzia a negoziare con l’Iran un accordo che consenta ispezioni a più ampio spettro che coprano anche gli impianti al centro del contenzioso internazionale. Gli ispettori sono rientrati in Iran, ma continuano a non essere in grado di fare i controlli principali necessari per valutare – e questo è effettivamente l’interrogativo fondamentale – se l’Iran, nonostante sia stato duramente colpito nel giugno scorso, sia intenzionato e stia effettivamente riprendendo il suo programma di arricchimento dell’uranio.
Vicepresidente vicario dell’Istituto Affari Internazionali e responsabile del programma di ricerca Multilateralismo e governance globale. Dal 2008 al 2017 è stato direttore dello IAI. Dal 2000 al 2006 è stato corrispondente per l'Economist Intelligence Unit e ha lavorato come visiting fellow alla Brookings Institution di Washington da gennaio 2006 a luglio 2007.






