Il piano per Gaza. Intervista a Nomi Bar-Yaacov

Qual è la sua opinione sul piano di pace Trump-Netanyahu per Gaza, quali potrebbero essere le maggiori difficoltà nella realizzazione e cosa si aspetta in termini di risultati?

Il piano di 20 punti non è un piano per la pace, ma un insieme di idee su come possiamo arrivare a far avanzare la situazione. La cosa più importante è che, purtroppo, manca una conclusione chiara: non è scritto che alla fine ci saranno due Stati sulle frontiere del 1967. Questo manca, ed è invece molto importante da aggiungere, perché senza una fine chiara non si arriva da nessuna parte.

In secondo luogo, questo è un piano per Gaza, ma non include la Cisgiordania. Bisogna considerare entrambe le parti insieme: non si può avere un piano solo per una parte della Palestina e non per l’altra. Ma, tutto sommato, non significa che il piano sia negativo: è semplicemente l’unico che abbiamo ora e dobbiamo implementare tutti i 20 punti, aggiungendo ciò che manca, altrimenti non arriveremo da nessuna parte.

Io ho zero tolleranza per la negatività: non è il momento, abbiamo sofferto troppo. Ora è il momento di implementare tutto ciò che è possibile. Quello che manca è un’agenzia palestinese. Il processo deve essere locale, con i Paesi della regione, con i palestinesi e anche con gli israeliani, perché senza gli israeliani non succederà nulla.

Al momento, la Striscia di Gaza è divisa in due sulla cosiddetta linea gialla. L’esercito israeliano controlla il 53% del territorio e Hamas controlla il 47%. Non è chiaro come si possa procedere: non c’è una timeline, non è chiaro quando l’esercito israeliano si ritirerà dalla linea gialla verso quella blu, poi verso quella rossa, e così via.

Tutto questo non significa che non sia possibile avanzare. La cosa più importante è avere un dialogo urgente con i palestinesi per creare un governo palestinese di transizione. C’è stata una riunione di tutte le fazioni palestinesi in Egitto, ma il presidente Mahmoud Abbas dell’Autorità Palestinese non solo non è andato, ma non ha mandato nemmeno un rappresentante del Fatah. Questo non è accettabile.

Tutti erano d’accordo sul fatto che servisse un primo ministro che gestisse la Striscia di Gaza nel periodo di transizione. Con tutte queste tensioni interne tra Abbas e le altre fazioni non è possibile andare avanti. Però la pressione è molto importante: da parte dell’Egitto, del Qatar, della Turchia sui palestinesi, e da parte di Trump su Israele. Senza pressioni internazionali di Trump su Israele e di altri su Hamas e sull’Autorità Palestinese non ci sarà alcun progresso. Sia Netanyahu sia Hamas non sono interessati a una risoluzione.

Questo è il quadro generale delle difficoltà. La cosa più difficile – e non dovrebbe esserlo – è che ancora non c’è un governo palestinese. È una cosa questa per i palestinesi da decidere.

Il disarmo è un altro nodo complesso. Non è chiaro come verrà fatto e chi lo farà. Senza un mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite immagino che non ci sarà neanche un Paese disposto a farlo. È necessaria una International Security Force, utile anche per la polizia palestinese. Finché Israele rimarrà nella Striscia di Gaza, nessun Paese locale serio correrà il rischio di mettersi in mezzo al fuoco tra Hamas e Israele.

Abbiamo proprio bisogno di avere una timeline di ritiro. Però la cosa più importante è che il presidente americano continui a mettere pressione su Israele per implementare il piano. Perché lui vuole la pace, non c’è dubbio. Ma la vuole senza comprendere appieno il processo e i dettagli, che sono invece molto complessi in questa situazione. I 20 punti del piano sono abbastanza vaghi: non è necessariamente un male, perché adesso è essenziale arrivare almeno a un cessate il fuoco. Meglio avere un documento vago che nessun documento e centinaia di morti ogni giorno.

Per ora, però, il futuro non è molto chiaro. Non c’è un accordo sul governo palestinese – che è una cosa intra-palestinese –, non c’è un accordo sul disarmo, non c’è un accordo sul ritiro israeliano dalla linea gialla. Non è nemmeno chiaro se ci sarà un mandato del Consiglio di Sicurezza. Gli americani hanno preparato una bozza di risoluzione, ma secondo me non passerà. Non sono esperti, è questo il problema.

Nel frattempo, in Cisgiordania la situazione è disastrosa. I coloni continuano a compiere azioni tremende. L’esercito anche. Non ci si può muovere. L’economia anche è in condizioni pessime e il trauma è enorme: in Cisgiordania, a Gaza, ma anche in Israele.

Serve un dialogo molto forte nella società civile: israeliana, palestinese in Cisgiordania, palestinese a Gaza e anche fuori. Servono progetti congiunti israelo-palestinesi. Non basta una narrativa solo israeliana o solo palestinese: serve una narrativa comprensibile al mondo su come si può andare avanti. È molto urgente.

Quale prospettive vede per il disarmo di Hamas e il coinvolgimento anche degli altri Paesi Arabi? Penso, ad esempio al Qatar.

Il Qatar non vuole partecipare al disarmo, e al momento nessun Paese arabo vuole far parte del disarmo. Compreso Hamas stesso. È evidente che ci saranno persone all’interno di Hamas che vorranno continuare ad avere armi. Il disarmo richiederà anni, non è una cosa che si fa in un giorno, come dice Trump: “Se non lo faranno loro, lo farò io in un giorno”. Non è possibile.

Sulle armi pesanti la situazione è meno complicata, perché ci sono Paesi che possono controllare le armi che verranno usate, ma quelle personali nessuno vorrà consegnarle. Ci sono persone che, per ideologia, preferirebbero morire con le loro armi piuttosto che consegnarle e sopravvivere.

A proposito degli accordi di Abramo, secondo lei che futuro possono avere?

Finché Netanyahu resterà primo ministro, non ci saranno nuovi Accordi di Abramo, forse con il Kazakistan, ma non con l’Arabia Saudita. Assolutamente no. Oggi, a una riunione dello IAI, qualcuno ha detto che la Casa Bianca sta preparando qualcosa per gli Accordi di Abramo: no, assolutamente no. Non è il momento.

Ci saranno elezioni in Israele nel 2026, e forse con un nuovo governo potrebbero essere rilanciati.

Recentemente c’è stata la visita alla Casa Bianca del presidente siriano. Come la giudica, considerato che fino a poco tempo fa, il presidente siriano era uno dei nemici pubblici di Trump, nonché ricercato come jihadista dagli Stati Uniti?

Secondo me, tutto il mondo — non solo Trump — sta dando appoggio al presidente della Siria. Vorrei vedere un sostegno simile anche al nuovo presidente del Libano. Non capisco perché – e secondo me è anche un errore – si sostiene fortemente la Siria e non il Libano, che invece ne ha un bisogno enorme.

Sono persone per bene, non è un caso di ex al-Qaeda. Spero che anche il Libano riceverà sostegno. Però la situazione in Siria non è per niente stabile e dobbiamo monitorarla.

Non sono molto ottimista sulla Siria, ma sono molto ottimista sul potenziale del nuovo governo libanese, che ha davvero bisogno di sostegno. È il momento giusto per appoggiarlo.

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