Europa: strada in salita e cammino faticoso

Al vertice sull’Ucraina convocato domenica 2 marzo a Londra dal primo ministro britannico Keir Starmer, la protagonista è stata l’idea anglo-francese di una forza militare di pace. Si è parlato di una “coalizione dei volenterosi”, aperta alla partecipazione dei Paesi che vi vorranno contribuire, e da presentare agli Stati Uniti, essenziali per porre fine al conflitto su basi eque. L’ipotesi formulata è che sia composta da trentamila uomini (dimensione che comporterebbe, affinché la forza possa essere operativa, la necessità di mobilitarne il triplo) e che rappresenti in prospettiva un embrione di difesa comune europea. È anche il segno che dopo l’infausta Brexit, il Regno Unito inizia un riavvicinamento all’Ue certo graduale ma in un campo prioritario per entrambi, come la difesa.

Intanto la guerra non si ferma. Solo ieri la Russia ha continuato a martellare con missili e droni Kramatorsk, Kherson, Zaporizhizhia e altri centri e ad avanzare lentamente contro la coraggiosa resistenza degli ucraini, certo stanchi e umiliati ma non rassegnati al peggio. Dagli Stati Uniti, con la sconcertante accoglienza riservata a Zelensky alla fine della settimana scorsa alla Casa Bianca, è arrivata la brutale conferma di alcuni punti, già anticipati dalla amministrazione Trump: l’Ucraina deve riconoscere di essere in posizione di debolezza, di non aver carte da giocare e di dover accettare una pace imposta dai più forti e dimentichi di potersi sedersi al tavolo del negoziato: in linea con l’accusa a Kyiv di aver scatenato lei la guerra (sic).

I punti del piano anglo-francese, o i suoi spunti, che restano da chiarire sono tanti. Innanzitutto la funzione esatta della forza europea. Non sembra essere di interposizione, dato che il numero di militari ipotizzato non sarebbe sufficiente per l’estensione dell’area da presidiare e per la consistenza dei due eserciti contrapposti. Nemmeno dovrebbe trattarsi di osservazione, perché se così fosse la sua capacità d’azione sarebbe notevolmente limitata. A un certo punto i francesi hanno accennato a un compito di “rassicurazione”, ma è da definire meglio. Né sembra facile la via di un mandato Onu, perché è da scontare il veto della Russia in Consiglio di Sicurezza contro una presenza militare europea in Ucraina: ipotesi già seppellita dal ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, come arrogante. Mosca non accetta l’impiego di forze occidentali in un Paese che considera a tutti gli effetti una sua pertinenza diretta.

Poi rimane da scioglier il nodo delle garanzie di sicurezza, per le truppe dislocate e per l’Ucraina. A Kyiv tutti sanno di aver subito un’aggressione proprio dal Paese che, in base agli impegni – sottoscritti nel memorandum di Budapest del 1994 – avrebbe dovuto garantire sovranità e integrità territoriale dell’Ucraina. Dopodiché è andata diversamente. Anche su questo gli americani si disimpegnano e i russi non ne vogliono sentir parlare.
Ma l’incontro di Londra non è stato inutile. Se l’azione europea deve muovere dal presupposto che “divisi siamo più deboli”, il confronto su un possibile impiego di truppe dovrà essere gestito al meglio, mentre resta solida la solidarietà di fondo con l’Ucraina. Il tema sarà di nuovo all’ordine del giorno il 6 marzo a Bruxelles, al Consiglio europeo, che dovrà affrontare anche le prevedibili riserve di Ungheria e Slovacchia.

In ogni caso l’idea di Starmer e Macron, al di là dei suoi aspetti da chiarire, è il segnale di una volontà europea di assumersi maggiori responsabilità per l’Ucraina e per la ricerca di una soluzione negoziata. Di fatto, essa risponde anche alle ruvide sollecitazioni degli Stati Uniti di maggior impegno europeo. Per questo, dopo l’amarissimo spettacolo in mondovisione realizzato venerdì nella Sala ovale, la Casa Bianca sarà ora consultata sulle indicazioni emerse dalla riunione di Londra. Anche se il dialogo transatlantico si è molto complicato dal 20 gennaio e se non si può essere velleitari, ridisegnare il ruolo dell’Europa e richiamare con forza, se possibile, quello dell’Occidente non sarà vano. La strada però è in salita e il cammino molto faticoso.

Valensise

Presidente dell'Istituto Affari Internazionali e presidente del Centro italo-tedesco per il dialogo europeo Villa Vigoni su proposta congiunta dei governi italiano e tedesco. Diplomatico di carriera, ha lavorato alla Direzione degli Affari Economici (1975), all’Ambasciata d’Italia a Brasilia (1978) e all’Ambasciata d’Italia a Bonn (1981). Dal 1984 al 1987 è stato consigliere a Beirut. Nel 1991 è nominato Primo consigliere a Bruxelles, presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea. Nel 1997 diventa ambasciatore a Sarajevo. Nel 1999 assume la direzione dei Rapporti con il Parlamento e poi del Servizio Stampa alla Farnesina. È Ambasciatore a Brasilia dal 2004, a Berlino dal 2009 e Segretario Generale della Farnesina dal 2012 al 2016.

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